Giovedi 26 marzo alle 18,30 nella sala conferenze di Palazzo Moncada, a Caltanissetta, sarà presentato il libro di Beppe Burgio: “Che bel Paese sarebbe questo se… Un sogno in Sicilia” (Bonfirraro Editore). Parteciperanno alla presentazione del libro il sindaco di Caltanissetta dr. Giovanni Ruvolo, l’assessore alla cultura dr.ssa Marina Castiglione, il prof. Sergio Mangiavillano che entrerà nello specifico del libro e sui suoi significati. Interverranno l’autore e l’editore. Per l’autore, che dal 1978 risiede e opera a Reggio Emilia, sarà un ritorno nella terra natia.
Beppe Burgio, pittore che da qualche anno si è dedicato alla letteratura, ha avuto l’ardire di mettere su carta quanto sentito dire fin da quando era bambino. Suo nonno materno, il suo amato nonno Calogero, nato proprio quando Garibaldi sbarcava a Marsala, gli diceva sempre: “quella cosa non doveva avvenire. Noi siamo isolani e come tali abbiamo della vita e della esistenza in generale, un’altra visione filosofica. Già noi non andiamo d’accordo con noi stessi e vuoi che possiamo fare la stessa strada con altri che non la pensano affatto come noi?”
Lui non capiva cosa volesse dire, era troppo bambino per un tipo di discorso di questo genere, ma gli piaceva che gli raccontasse di quelle cose “da grandi” perché, già fin da bambino, lui, Burgio, aveva della curiosità fatto un territorio di ricerca. No. Suo nonno non era quello che si suole definire un nostalgico dei Borboni. Non era un nostalgico di nulla, lui amava la sua terra, ma di una cosa era certo, quella annessione forzata non era stata la strada migliore e sicuramente, diceva, “ci sarebbero state altre modalità o sistemi per una unità nazionale: quel modo era stato il meno adatto e poi non era stato mai richiesto.”
Ma c’è stato un altro motivo che lo ha indotto a scrivere questo libro che sta a metà strada tra il saggio e il romanzo, la piaga della mafia. La Sicilia potrebbe essere il paradiso terrestre se non avesse la grande ferita purulenta che da oltre un centinaio di anni ne sta martoriando le carni e la tiene a debita distanza da quanti, pur amandola e desiderando viverci, investire, fare affari, dialogare, se ne stanno alla larga per non avere problemi, per un quieto vivere. Quando, anni fa seppe che gli industriali del vino Zonin scelsero la Sicilia per i suoi vigneti, Burgio presagì che dopo poco sarebbero fuggiti per i “pizzi” che avrebbero dovuto pagare per lavorare e, badate bene, a portare ricchezza e lavoro. Così non è stato, ma… c’è qualche ma di troppo.
Sì, la motivazione principale è la mafia. Questo cancro che ha fatto metastasi su tutto il territorio isolano e che adesso sta allignando e metastasizzando anche il cosiddetto “continente”. La mafia e le politiche che l’avrebbero dovuta combattere e che, invece, hanno contribuito soltanto a farla mutare geneticamente trasformandola da fenomeno tipicamente agreste e contadino in una industria del crimine finalizzata alla ricchezza. La vecchia mafia era soltanto uno degli aspetti del nostro folklore. Quando si diceva ad una persona “mafiusu” era sinonimo di scaltrezza mischiato ad arroganza e anche ad una dose abbondante di spocchia, superbia, prepotenza; tutto quanto poteva essere sinonimo di fare intendere a chiunque che dovevano stare attenti a non “disturbare il manovratore”. Con il tempo dal folklore “coppola e gangalarrone” si è passati alle stragi e alle bombe e questa mutazione genetica è solo colpa dei siciliani, solo e soltanto di quanti, pur potendo, non hanno fatto nulla per combatterla seriamente, lasciando ad altri questo ingrato compito. Ma ci riusciranno?