Il jazz ha viaggiato in treno. Un treno speciale, straordinario, festoso. Percorso: da Bari a Martina Franca e ritorno. Partenza alle 16.25; arrivo alle 18.35. Settembre, giorno 19.
Un convoglio affollatissimo non solo di turisti, ma anche di gente desiderosa di godersi la novità, di affrontare una piccola avventura, di vivere appieno l’originale esperienza, di stare in compagnia in modo diverso, ammirando la bellezza paesaggistica, architettonica dei paesi attraversati, godendo i colori, il clima, il calore. In quelle ore milanesi, bolognesi, pugliesi, compresi alcuni stranieri, hanno familiarizzato, si sono scambiati gli indirizzi, qualcuno ha addirittura gettato le basi per un’amicizia; si sono dati appuntamento, degustando prodotti tipici di questa terra ricca di ospitalità e cortesia.
Negli intervalli tra un brano musicale e l’altro suonato da più orchestre rimbalzavano, s’intrecciavano curiosità sulle prelibatezze assaggiate, sulle caratteristiche dei luoghi, sulla storia del locomotore (diesel, del 1959) che trainava tre carrozze Carminati anni ‘30-’40, con i sedili di legno, una a terrazza del 1903, un bagagliaio del 1940. Reperti storici, insomma. “Le vetture sembrano quelle del Far West”, ha insinuato un patito di Bud Spencer e Terence Hill, ma la battuta è naufragata nelle note di “Summertime”, accolta da applausi fragorosi. Poi, mentre la motrice rallentava e si apprestava all’ultimo sbuffo, un signore con i baffi all’Einstein ha ricordato il Treno Blu della Bèlle Epoque; e tale era almeno l’atmosfera briosa esplosa sul marciapiede e dai finestrini. Un novantenne dal passo traballante, ma dallo sguardo espressivo, vivace, rivolgendosi a un accompagnatore, ha accennato ai tempi della guerra, risvegliati dall’arredo delle vetture, comunque restaurate a dovere e ben tenute.
Il fascino del treno ci accompagna dall’infanzia. Va bene l’aereo; altrettanto bene il pullman, l’auto, ma vuoi mettere il piacere di andare su rotaie da un luogo ad un altro, con ulivi solenni, vigneti in preghiera, casupole sbrecciate, tetti, muri a secco… che corrono come frecce? Una “madame” dall’aria sognante confessava che tutta la luce bevuta durante il viaggio aveva dato ristoro alla sua anima; che il verde della Puglia, intenso, non lo aveva mai visto da nessun’altra parte. E sollecitava informazioni sul “Valle d’Itria Express”. Tempo al tempo. Gli organizzatori (l’Aisaf di Bari con la collaborazione dell’Associazione culturale musicale “Nel gioco del jazz” e la Scuola musicale Il Pentagramma di Bari) ce la mettevano tutta per spiegare, illustrare, raccontare, soprattutto ai ragazzi, i più incalzanti, insaziabili, alla vista delle immagini esaltanti, scenografiche che la nostra regione può offrire; a cominciare dai trulli con i tetti come i berretti dei maghi delle fiabe, sormontati da pompon o palle da biliardo.
“Il treno chiamato jazz” sibilava quasi in segno di allegria e i bambini tripudiavano. Dario De Simone, dell’Aisaf di Bari, psicopompo dell’iniziativa, era frastornato, sballottato tra il cronista ansioso di sapere mille particolari e l’operatore di Telenorba che lo riprendeva di faccia, di profilo, nascosto dal contrabbasso che il suonatore faceva fatica a salvare dalla ressa.
Scene già viste un mese prima, quando sullo stesso binario il “Salento Express” aveva fatto la sua prima corsa. La macchina era dei primi anni ‘50: pezzo da museo, sì, ma ancora nel pieno della sua potenza. I vagoni risalivano forse al tempo della guerra: quasi gli stessi di quelli che ci portavano da Taranto a Martina, dove la notte ci svegliavano terribili boati: le bombe che facevano lampeggiare l’orizzonte e crollare i palazzi. Allora il treno non oltrepassava la stazione di Nasisi, perché quella di Taranto era a rischio. Da lì alle Tre Carrare, dove abitavo (saranno venti chilometri? Di più?) bisognava andare a piedi. Camminata stancante, che dovevamo fare dopo ogni bombardamento per accertarci che la nostra via non fosse sommersa dalle macerie. Quando il conflitto si concluse e si raccoglievano i cocci, alla stazione della Bimare andavamo con la carrozza. Il vetturino, sempre lo stesso, in cassetta con il cappello a cilindro, si presentava alle sei del mattino, quando le strade erano deserte, le finestre chiuse e i negozi pure, a parte quello del fornaio. Il treno per Martina partiva alle 7.30. Le tappe: Nasisi, Statte, Crispiano, Madonna del Pozzo, San Paolo. Mi inebriava il fischio “d’a Ciucculatera” che a volte aveva un respiro affannoso.
Passarono gli anni, e non so più quante volte, arrivando a Bari da Milano, raggiungevo Martina con la Sud-Est. E riscoprivo dettagli dimenticati, provando emozioni che mi inumidivano lo sguardo. Un giorno, non so più se a Casamassina o a Conversano, l’altoparlante annunciò che i contadini, per una protesta, avevano occupato le rotaie, per cui non era possibile proseguire. Non mi scomposi: scesi, mi sedetti su una panchina rinunciando ad accendere il solito toscanello per meglio osservare i viaggiatori: contrariati o adirati o impennati. Io avevo tempo, ero libero da impegni: ero già in Puglia, nella mia Puglia, che per Giuseppe Carrieri è la patria di Andersen, “un Andersen mediterraneo, con più balenanti misteri”…E gioivo, respiravo aria familiare, ritrovavo vecchie fragranze. .. Ero diretto a Martina, e ricordavo:… “la Murgia dei Trulli raggiunge qui la sua vetrina domenicale, la sua stravaganza espressiva”.
“È un’indecenza”, urlò un tale con una voce da gallinaceo. “Uno schifo”, gli si associò un altro. “La polizia che fa; sta a guardare?”, tuonò un terzo. Poi un coro assordante. Io, serafico, quando potetti, azzardai: “Ognuno si difende come può. Subiscono un’ingiustizia e reagiscono”. Uscii indenne dall’intervento. Nessuno ebbe la tentazione di ridurmi in poltiglia. Era quasi mezzogiorno; l’interruzione doveva concludersi alle 16. Guardavo il locomotore e invidiavo i macchinisti che dalla cabina di guida si godono il treno che filando divora la strada ferrata. E pensavo alla piattaforma girevole della stazione di Martina, sepolta sotto uno strato di terra. Mi dicono che prossimamente verrà riscoperta, restaurata e sistemata come base di una “Ciucculatera”: un monumento al treno, che alimenta i sogni, le chiacchierate, le confidenze, gli sfoghi, gli incontri.
Il mio amico Gerardo voleva andare a vedere il luogo della sepoltura della piattaforma. Ma non c’era tempo. Le sbarre del passaggio a livello erano state abbassate. Il “Treno chiamato jazz”, o meglio “Salento Express”, aveva già lasciato lo scalo di Locorotondo. Erano quasi le 19.
“Attenzione al terzo binario”, ha avvertito una voce. Subito dopo la baraonda. Mille macchine fotografiche scattavano foto. Duecentottanta viaggiatori salutavano con in fazzoletti in mano, il marciapiede formicolava di gente che sbucata improvvisamente assediava il convoglio: un’accoglienza calorosa che bloccava i gitanti sulla piattaforma, sugli scalini. Il trombettista vinceva la tentazione di intonare il silenzio, per agevolare uno dello “staff” che informava, sgolandosi: “Chi vuole può andare a visitare il centro storico, ma deve tornare puntuale”, mentre una siepe umana s’ingrossava attorno a un complesso che, non ancora defatigato, riprendeva il concerto sul piazzale.
Un 19 settembre da inserire negli annali, ha commentato il papà di Gerardo, Nicola, uomo di poche parole, ma sempre ben dosate, che con il suocero Vito e la moglie Antonella aveva atteso lungo l’ora dell’evento. “A parte lo spettacolo davvero grandioso, avete notato la pianta di capperi spuntata proprio sul terzo binario?”.