La recente riproposizione in volume di saggi e articoli di Leonardo Sciascia sparsi e dispersi su riviste e giornali (Fine del carabiniere a cavallo, Adelphi, MI, 2016), sul quale abbiamo dato testimonianza in questo giornale il 2 aprile scorso, ci dà lo spunto per ricordare un articolo – apparso su “Il Giorno” del 12 maggio 1962 – che egli scrisse sulla sua visita a Sàvoca, da noi accompagnato.
L’aspetto principale che lo colpì fu lo stato di rovina e d’abbandono in cui versava il paese allora
(ben cinquantaquattro anni fa), tanto è vero che il titolo dell’articolo eloquentemente suonava
“Ritratto di un paese che muore – Attendono nel deserto la manna dei turisti”, come peraltro auspicava il priore del convento dei Cappuccini, padre Anselmo Trischitta, discendente di uno dei sette Trischitta che firmarono nell’ottobre del 1676 la “resa” della cittadina all’armata francese “venuta a portar soccorso ai messinesi che si erano ribellati al dominio spagnolo”, e comandata dal Maresciallo duca di Vivonne (e Sciascia, con la sua tipica ironia, aggiunge che costui, “ad insinuazione del conte d’Aubigné, fratello della Maintenon, doveva il bastone di maresciallo a sua sorella, la signora di Montespan”).
Lo scrittore – staremmo per dire “sciascianamente” – risale al suo amato Voltaire: “Si divertirebbe
il vecchio Voltaire a sentire da padre Anselmo la storia dei bachi che hanno intessuto un drappo di seta per la Madonna di Loreto che qui si venera: da soli, naturalmente; e in adempimento ad una promissione fatta dalla loro padrona e non assolta. E il drappo c’è ancora, in chiesa; con cartiglio che ne racconta la storia”.
Poi riferisce dei turisti che padre Anselmo attende: “il ricordo di una comitiva di ben trentaquattro
danesi accende di felicità i suoi occhi… Le vuote celle del convento sono pronte a ricevere turisti: su ogni porta, lungo il corridoio, si leggono versi come questi: ‘La vita fugge e si dilegua, ohi lasso!
/ Dalla culla alla tomba è un breve passo’… che certo darebbero decadentistici brividi alle nordiche comitive”. Ma i turisti, almeno allora, a Sàvoca fanno solo una puntata, preferendo gli alberghi di Taormina e persino di Forza d’Agrò, che a quel tempo era venuto alla cronaca per un film – di “astrale cretineria” – che vi aveva girato il regista Negulesco.
Cita i quadri della chiesa – con una puntualizzazione su “Antonello” citato dal priore, solo “de Saliba”, comunque riprodotto in cartolina e venduto ai visitatori – e la cripta “in cui i morti stanno, in piedi nelle nicchie, a far macabro carnevale” (ma lo scrittore, “al di là della pietà, al di là dell’orrore” evitò di scendere nei sotterranei). E spiega lo spopolamento del paese con quel “fenomeno, relativo a quasi tutto il litorale della penisola italiana e delle isole, verificatosi dalla fine del secolo XVIII, quando la paura delle incursioni piratesche cominciò ad attenuarsi e le popolazioni, che si erano arroccate sui monti sovrastanti le coste, si spostarono verso il mare. Poi lungo il litorale si aprirono le vere e proprie strade di comunicazione. E poi la ferrovia”.
Anche se “lo spostamento della popolazione verso il lido e la soppressione della sede vescovile (Sàvoca era sede di archimandrita, cui appartenevano ventiquattro dei quarantotto feudi che formavano il territorio del comune) spiegano fino a un certo punto la spaventosa decadenza di Sàvoca.
La più diretta causa è da ricercare nella concessione dell’autonomia amministrativa ai villaggi sorti, in territorio di Sàvoca, lungo la strada carrozzabile Messina-Catania; e precisamente alla costituzione del Comune di Santa Teresa Riva, nel 1853”. E non dimentica di citare la “guerra” sorta con quest’ultimo comune, quando nel 1928 era stato addirittura eliminato quello di Sàvoca, poi ricostituito nel 1948.
Sciascia restò colpito dall’esuberanza del paesaggio e della natura tutt’intorno, nella sua esplosione vitale, che contrastava con l’immobilità umana. “E le nostre voci, mentre andiamo su e giù per le strade del paese e ci fermiamo ad ammirare portali, rosoni, bifore – e il paesaggio ad ogni svolta diverso, per cui si dice che Sàvoca ha sette facce – suonano sperse, irreali”.
Allora la vita del paese era legata all’agricoltura (ma dei tre monaci del convento padre Anselmo non cita padre Basilio da Naso, studioso di storia locale, “forse perché immerso nelle sue vecchie carte, estraneo e lontano”). E paragonando la vocazione turistica di Taormina a quella di Sàvoca, aggiunge: “In quanto a posizione, Sàvoca non ha niente da invidiare nemmeno a Taormina”. Cita il
Fazello, che riferisce di una fonte che diffondeva “acque mescolate all’olio” (nelle note di aggiornamento del Di Marzo, del 1856, veniva precisato: “Contiene il suolo di Sàvoca petrolio, piombo, marcassita, antimonio nativo e ferro micaceo”).
E conclude: “Di questo fonte che diffonde acque mescolate all’olio, nessuno ha memoria. Ma in Sicilia è più facile conservare memoria dei fenici che di un’acqua che sa di petrolio. Anche padre
Anselmo punterebbe tutto sull’antica Pentefur o Pentefar, sul remoto e leggendario paese che fu poi Sàvoca; sulle ricerche archeologiche, sui morti nella cripta, sul quadro di Antonello (de Saliba), sull’incanto del paesaggio. E niente sul petrolio”.
E’ vero tuttavia che l’auspicio “turistico” di padre Anselmo si è poi avverato, anche se oltre cinquant’anni dopo. In una recente visita al paese, mai avevamo visto tanti pullman e tanti visitatori
in giro, al punto che la lingua inglese suonava più dell’italiano.