Messina, 25 giugno 2016 – Alcuni avvenimenti di questo mese – e in particolare il viaggio di papa Francesco oggi in Armenia – mi interpellano su quelle che sono state le due passioni (e impegni professionali) che hanno improntato tutta la mia vita, come storico e come giornalista. Due profili che spesso ho cercato di fare “dialogare” tra di loro, e che talora mi hanno spinto a prendere posizione e a fare pubblici interventi. Mi riferisco, in particolare, al “genocidio” degli armeni, stigmatizzato oggi da papa Francesco; questione che, in qualche modo, si può accostare alla legge sul “negazionismo” approvata questo mese dal Parlamento italiano. Questioni attuali e spinosissime che, con evidenza, affondano le loro radici nella storia. Storia e comunicazione della storia; non posso perciò sottrarmi a questo abbinamento di obblighi professionali.
Agli inizi di questo mese la Camera dei deputati ha approvato una legge che colpisce quanti sostengono “la negazione della Shoah o dei crimini di genocidio, o dei crimini contro l’umanità o dei crimini di guerra”. Questa legge, com’è noto, ha avuto un percorso accidentato e parecchi Paesi – come l’Inghilterra, l’Irlanda, l’Olanda, Danimarca, Svezia – si sono rifiutati di adottarla, nonostante le pressioni della Commissione Europea. Parecchi storici, anche in Italia, hanno manifestato le loro perplessità e, personalmente, sono tra i pochi che circa due anni fa hanno preso pubblicamente posizione in tempo reale, cioè quando la proposta di legge veniva discussa in Senato e in Commissione Giustizia; nel novembre 2013 ho pubblicato un articolo sul quotidiano “Gazzetta del Sud”, che circa due settimane fa ho riproposto all’associazione di storici (cui faccio capo), perché parecchi colleghi sembravano aver perso memoria del dibattito che a suo tempo c’era stato. Adesso ripropongo l’articolo anche a voi perché a distanza di due anni, e a cose fatte, mi sento di poter confermare quanto scrivevo allora, ma con una nota di scetticismo in più; e cioè sulla superficialità della nostra rappresentanza politica che ripete, come un pappagallo, quanto è stato fatto (malamente) altrove. E con un’aggravante: all’eccessivo come chiamarlo (“formalismo giuridico”) si unisce oggi un “uso civile” della storia desolante e quasi nullo. In altri termini non è solo un problema di “negazionismo” ma di più generale emarginazione della storia come scienza etico-politica del Paese. L’abbassamento della coscienza etica crea un vuoto che le “leggi” non possono riuscire a colmare. Noi dell’UCSI, che abbiamo fatto dell’etica civile e dell’etica professionale la nostra bandiera, dobbiamo riflettere molto su questi temi. Di esempi recenti negativi, ne possiamo trovare a piene mani. Per esempio sul problema del confine vita / morte si vuole demandare tutto alle leggi (che comunque bisogna fare) mentre, nel mondo cristiano, si era ben consapevoli di questo confine; addirittura nel mondo antico si era coscienti che nel cuore dell’uomo c’è una legge “non scritta ma chiara”: l’Antigone di Sofocle sa bene cosa fare di fronte alla morte del fratello e non ha bisogno delle leggi dello Stato, perché c’è una legge anteriore scolpita nel cuore dell’essere umano.
Tornando alla questione armena – che oggi papa Francesco ha interpretato con straordinaria modernità – alcuni organi di informazione (anche televisivi) hanno intitolato “Una strage dimenticata”. Non è un titolo errato, ma c’è un aggettivo che non esprime adeguatamente la realtà, come dovrebbe fare un buon giornalista. “Dimenticata” fa pensare all’oblio, magari inconsapevole. Bisognava titolare, invece secondo me, una strage “ rimossa”; perché chi voleva, aveva tutti gli strumenti per informarsi (come dovrebbe fare un buon giornalista) e non da ora. Ho abbastanza anni sulle spalle per ricordare perfettamente che sul finire degli anni Cinquanta è cominciato a circolare un libro che riuscì a procurarsi anche un ragazzo di provincia come me: “ I quaranta giorni del Mussa Dagh”, un romanzo storico di Franz Werfel (pubblicato nella Collana economica dei “libri del Pavone” di Mondadori), in cui c’erano tutti gli elementi per informarsi sullo sterminio dei cristiani armeni. Se questo libro riusciva a procurarselo (e a leggerlo) un adolescente come me (avevo all’incirca 16-17 anni), chissà quanti altri (giornalisti, storici…) più bravi di me lo hanno potuto fare!! Però questo capitolo di storia per diversi anni non ha fatto notizia. Purtroppo il sistema dell’informazione (allora come oggi) preferisce il conformismo, preferisce seguire gli “idola fori”, dare sempre la stessa notizia commentandola in mille salse. Subentra allora il problema dell’etica professionale per noi particolarmente acuto. Non solo. Come ci ha insegnato Benedetto XVI con il libro “Gesù di Nazaret” (II), la “non conoscenza” è la madre di molti mali. Perciò non solo per gli storici ma anche per i giornalisti c’è il dovere morale e professionale di dare le notizie non in modo epidermico, ma sforzarsi di conoscere e far conoscere il retroterra più autentico; come ci ha indicato il cardinale Parolin al Congresso di Matera: “non dobbiamo arrivare primi, ma dobbiamo arrivare meglio”.
Perciò auspico che i particolari eventi di questo mese – che hanno trovato un autorevole epilogo nel discorso di papa Francesco oggi in Armenia – possano servire a noi da lezione e da stimolo per esercitare sempre meglio la professione di giornalisti.