Immagine: Emilio Isgrò scrittore
Emilio Isgrò, notissimo scrittore-pittore di Barcellona P.G. (Me), pubblica le sue memorie artistiche, dal titolo Autocurriculum (Sellerio, PA, 2017), che Salvatore Silvano Nigro – nel risvolto di copertina – considera un “teatrale sabotaggio di un genere letterario”.
Com’è noto, infatti, Isgrò nasce – come lui stesso afferma, a p. 31 – con un’”insopprimibile vocazione letteraria” e letterarie sono le prove degli inizi (il primo libro di poesie, Fiere del Sud, uscirà da Schwarz nel 1956, cui seguiranno Uomini e donne da Sampietro nel 1965 e L’età della ginnastica da Mondadori nel 1966). Il momento del passaggio all’arte visuale (“la grande svolta”, p. 86) avverrà solo nel 1964, con le prime “cancellature”, tra cui la più nota e fondamentale Volkswagen bianca in campo nero. Se è vero che Isgrò – come dichiarerà ad Ada Masoero (“Il Sole/24Ore” del 23.6.2013) – ebbe la prima intuizione dell’arte del cancellare nel 1962, quando lavorava al “Gazzettino” di Venezia e faceva l’editing di un elzeviro di Giovanni Comisso, è però anche vero che egli aveva sempre bazzicato con quella che viene chiamata poesia visiva. Le origini della poesia visiva strictu sensu risalgono al 1963, ad opera del Gruppo ’70 (Miccini, Pignotti), ma gli antecedenti sono molto più lontani: basti citare le parolibere dei futuristi, i Calligrammes di Apollinaire o, nell’antichità classica, i technopaegnia (poesia figurata). A quest’ultimo riguardo il “monumento” alla poesia figurata è stato fissato da Giovanni Pozzi: “L’iconismo poetico nasce da una serie di relazioni che intercorrono fra la lingua e il disegno mediante il tramite della scrittura” (La parola dipinta, Adelphi, MI, 1981, p. 27). C’è comunque una straripante rassegna sulla poesia visiva, intitolata Pòiesis- Ricerca poetica in Italia, dove Eugenio Giannì afferma che “i due mondi [quello visivo e quello del significato o mentale] si sono avvicinati, fusi e posto in discussione le loro basi strutturali, ovvero la loro rete di elementi semantici. […] Si origina così una ‘convivenza’ che è insieme inizio e fine di una esistenza dovuta alla semplice funzione del significante” (Istituto Statale d’Arte, Arezzo, 1986, p. 13). Nello stesso volume c’è un intervento di Isgrò sulla poesia visiva:” La definivo un oggetto strutturato visivamente, in cui materiale verbale e materiale iconico, cioè parola e immagine, coesistono nel tentativo di dar vita a una manifestazione estetica organica” (Ivi, p. 65).
Ma non si può intendere appieno la poesia visiva se non si introduce la nozione di arte concettuale. Dice al riguardo Gillo Dorfles che tale corrente “si deve considerare come squisitamente mentale, di ricerca intellettuale, speculativa, il cui fine è soprattutto quello di giungere ad una realizzazione noetica più che quello di incarnarsi in un preciso embrione formale, tangibile, e decisamente fruibile percettivamente” (Ultime tendenze dell’arte d’oggi – Dall’Informale al Concettuale, Feltrinelli, MI, 1973, p. 131). E qui, proprio su Isgrò, Dorfles afferma:” Quest’ultimo è certamente il più efficace realizzatore d’un trait d’union tra poesia visiva e concettualismo, specie con i suoi testi ‘cancellati’” (Ivi, p. 143). Di ciò è peraltro consapevole lo stesso autore, quando dice:”Proprio perché avevo un’educazione visiva incompleta […] dovevo allenare l’occhio alla forma delle immagini così come un tempo avevo addestrato l’orecchio al suono delle parole. Dovevo insomma diventare un tecnico del visibile dopo aver giocato per tanto tempo con l’invisibile. […] Io con qualcosa che continuavo a chiamare poesia visiva mentre per i critici era già arte concettuale nella accezione più completa del termine” (Autocurriculum, p. 88).
La cancellatura diventa così per Isgrò la “sigla” del suo fare artistico. Ma qual è propriamente il senso e la funzione di essa? Per Pierangelo Buttafuoco essa consiste –quasi michelangiolescamente – in “uno scolpire in levare” dal quale residua l’Assenza (“Corriere della Sera” del 12.11.2017). “Il problema – dice lo stesso autore – non era la sopravvivenza della parola in sé. Ma la possibilità di cancellarla provvisoriamente per ricaricarla di altri significati” (Autocurriculum, p. 186). Afferma Achille Bonito Oliva che “l’opera di Isgrò lavora sullo scardinamento della comunicazione logico-discorsiva per registrare l’accelerazione della vita moderna, la vertigine del soggetto nella storia e le profonde pulsioni di un inconscio più forte di qualsiasi ragionevolezza disciplinare” (“La Repubblica” del 18.9.2016). Per Ada Masoero la ricerca di Isgrò è eversiva, non solo perché, elidendoli, finisce per conferire nuova vitalità ai segni risparmiati, verbali o iconici che siano, ma perché nel farlo dedica la massima attenzione ai valori formali del suo lavoro” (“Il Sole/24Ore” del 3.7.2016). Lea Mattarella parla di “mondo sottratto e nascosto: […] quando Isgrò interviene con i suoi segni non nega ma afferma e protegge, dando valore a ciò che resta” (“La Repubblica” del 1.8.2013). Per Vincenzo Trione “iconofilia e iconoclastia […] sono momenti di un unico gesto, che è all’origine della poetica di Emilio Isgrò. […] In linea con la lezione del Dadaismo, egli muove sempre da qualcosa che già esiste e perciò centrale è in lui la fase del prelievo (non oggetti anonimi o industriali, ma materie dense di memorie, di spessori culturali: enciclopedie, codici, libri, manifesti, giornali). […] Esploratore di grafie e di scritture, trasgredisce l’ordine del ‘buon senso’. Vìola il potere del lògos. Sgretola le regole auree del linguaggio, che egli sente come una sorta di virus. […] La sua filosofia è in questa riflessione:’ Una parola cancellata sarà sempre una macchia. Ma resta pur sempre una parola’” (“Corriere della Sera” del 19.6.2013). Arturo Carlo Quintavalle inquadra infine l’arte di Isgrò nel contesto storico e parla per lui di “risposta europea” dopo la Pop-Art e dopo l’Abstract Expressionism della Biennale veneziana del 1964, al tramonto dell’Informale: “Magritte, scrivendo sotto una pipa ‘ceci n’est pas une pipe’ alludeva alla simbologia dell’oggetto, per Isgrò invece la cancellatura ha la propria matrice nel linguaggio dell’arte” (“Corriere della Sera” del 26.6.2016).
Isgrò ha organizzato le sue memorie in capitoletti i cui titoli, spesso, tradiscono quell’ironia, e autoironia, che affiora apertamente nel testo, come quando afferma di aver dato alle fiamme un poemetto giovanile –sulla scia dell’Orlando furioso – “per non compromettere la mia reputazione presso i posteri” (Autocurriculum, p. 17). Qualche esempio di tali titoli: “La ricotta siciliana”, “Cosa mangia Montale” (il “pescestocco alla messinese” in casa di Elio Vittorini), “Le zampe della Guggenheim” (quando la intervistò lei era appena tornata dalla Cambogia e portava “ai piedi due zampe di leone come ciabatte”).
Sono gustosissime le memorie d’infanzia, o di giovinezza, del primo capitoletto, come quando Isgrò (che è del 1937) afferma di essere nato alle quattro del mattino:”Una levataccia che ancora oggi mi pesa” (Ivi, p.9). Così come si può dire che sono stati fondamentali gli amici di allora, a cominciare da Vincenzo Consolo che, a metà degli anni Cinquanta arrivava a Barcellona sul camion dell’azienda agricola di famiglia per frequentare il comune liceo classico, e si dirigeva impettito verso una vicina casetta dove un’anziana vedova vestita di nero l’aveva preso a pensione. E di Consolo dirà che una volta, ospite a casa di Tano Cuva a Capo d’Orlando, lui che di solito mangiava pochissimo, era riuscito a ingoiare ben dieci melanzane ripiene. L’altro grande amico era stato Basilio (detto Silo) Reale, poeta, critico d’arte e psicoanalista junghiano, che l’aveva invitato ad esporre al Premio “Vita e paesaggio” di Capo d’Orlando. Ma tra i “barcellonesi” non viene dimenticato nemmeno Nino Pino Balotta, professore universitario e poeta “anarchico” che, nel 1968 durante la processione del Venerdì Santo, era sceso dall’auto per schiaffeggiare il prete Mariano La Rosa che gli aveva dato dell’ateo perché con il suo passaggio disturbava il corteo dei babbaluci (gli incappucciati delle Confraternite).
Ma, sul piano dell’aneddotica, sono altrettanto importanti le notizie che a volte l’autore ci dà su personaggi famosi, come quando Ezra Pound gli confessò che “aveva sbagliato tutto” o, sotto un aspetto più mondano, quando gli capitò di ascoltare, la notte di S.Silvestro del 1976 in un ex monastero benedettino di Gavi, “Umberto Eco al flauto dolce accompagnato al pianoforte dall’amico Gillo Dorfles” (“Ivi, p. 151). Certo è che, da quanto si apprende da queste memorie, Isgrò ha frequentato per tutta la vita le “persone che contano” e che, spesso, sono alla base della sua promozione e fortuna artistica.
E’ quasi impossibile dire succintamente quali siano le più importanti “cancellature” fatte durante la sua lunga esperienza artistica. Ma non si può non citare la grande mostra antologica di Milano del giugno 2016 distribuita su tre sedi espositive: Palazzo Reale, Gallerie d’Italia e Casa del Manzoni. A cui va aggiunta la grande scultura denominata Il seme dell’Altissimo e raffigurante un seme d’arancia, esposta l’anno prima all’Expo.
Preferiamo concludere indicando alcune delle più importanti “escursioni” nel campo della scrittura, dopo le iniziali prove poetiche. Per il teatro: Gibella del martirio (1982), L’Orestea di Gibellina (Feltrinelli, 1984), San Rocco legge la lista dei miracoli e degli orrori (1982), Giovanna d’Arco (Mondador i, 1989). Per la prosa (anche se non si sa con quanta pertinenza indicata come “romanzo”) L’avventurosa vita di Emilio Isgrò in testimonianze varie (Il Formichiere, 1975), Marta de Rogatis Johnson (Feltrinelli, 1977), Polifemo (Mondadori, 1989), L’asta delle ceneri (Camunia, 1994).
EMILIO ISGRO’, Autocurriculum, Sellerio, PA, 2017, € 14,00.