SCIASCIA “GIALLISTA” E SCRITTORE DI “GIALLI”

Paolo Squillacioti raccoglie ora gli scritti di Sciascia sul romanzo poliziesco in unico volume: Il metodo Maigret e altri scritti sul giallo, Adelphi, MI, 2018 (che vanno dal 1953 al 1989).

Come aveva fatto con Fine del carabiniere a cavallo (Adelphi, 2016), la raccolta dei saggi sparsi o dispersi di Leonardo Sciascia, con altrettanta filologica acribia Paolo Squillacioti raccoglie ora gli scritti di Sciascia sul romanzo poliziesco in unico volume: Il metodo Maigret e altri scritti sul giallo, Adelphi, MI, 2018 (che vanno dal 1953 al 1989).

   Si tratta di ventitré articoli (senza tener conto di quelli ripubblicati più volte) che con intelligenza sono stati riuniti in tre sezioni. La prima delle quali contiene quelle che si possono considerare come le idee generali, e storiche, che Sciascia aveva elaborato su questo particolare “genere”: il romanzo poliziesco, noto in Italia come “giallo” (dal colore della copertina della serie che l’editore Mondadori pubblicava periodicamente), e che tanto intrigava lo scrittore siciliano, che nella sua   adolescenza se ne era nutrito, al punto da adottare la relativa “tecnica” anche nella propria narrativa (a partire da Il giorno della civetta).

   In questa sezione (composta da nove articoli) Sciascia ci informa preliminarmente che, per il genere poliziesco, “il momento essenziale della sua genesi va ricercato nei tales of terror del Settecento” (p. 20). Cita poi Alain [pseudonimo di Emile-Auguste Chartier, 1868-1951] secondo cui “il ‘giallo’ consiste […] nell’uso di mezzi di terrore e di pietà senza precauzione. E quella che Alain chiama precauzione sarebbe per l’appunto la disciplina, la misura, la forza dell’arte. Sicché, in definitiva, il più grande romanzo poliziesco che sia mai stato scritto resta I fratelli Karamazov di   Dostojevskij “ (p. 40). Da questo punto di vista, la “centrifugazione della realtà – ridotta alla descrizione – è la specifica tecnica del romanzo poliziesco” (p. 22). Per questo il “giallo” rientra in quello che viene chiamato sottobosco letterario, anche se poi ci sono sommi esempi di scrittori che passano alle zone alte della letteratura. E parlando dei “grandi scrittori che, per divertimento o congenialità hanno scritto dei ‘gialli’, bisogna parlare di Gadda: che ha scritto il più assoluto ‘giallo’che sia mai stato scritto, un ‘giallo’ senza soluzione, un pasticciaccio. Che può anche essere inteso come parabola, di fronte alla realtà come nei riguardi della letteratura, dell’impossibilità di esistenza del ‘giallo’ in un paese come il nostro: in cui di ogni mistero criminale molti conoscono la soluzione, i colpevoli – ma mai la soluzione diventa ‘ufficiale’ e mai i colpevoli vengono, come si suol dire, assicurati alla giustizia” (p. 75). Mentre, per quanto riguarda la storia del genere, fa l’elogio di un libro (“accurato, preciso”) scritto da un cattedratico (cosa insolita), Breve storia del romanzo poliziesco (Laterza, BA, 1962) di Alberto del Monte; da cui prende lo spunto per affermare che  “una letteratura poliziesca, che in effetti discenda dalla preoccupazione di  osservare l’amministrazione della giustizia e di assicurarsi di essa, e comunque dall’aspirazione alla giustizia, è difficile nasca in Italia” (p. 50). E si dichiara insofferente nei confronti dei “gialli” nuovi,  che hanno sostituito la quantità alla qualità dei delitti e sono zeppi di “permissività in fatto di pornografia e droghe, anche se è l’indulgenza dei giudici a far venire l’ulcera ai poliziotti” (p. 80).

   La sezione si conclude con una tipica affermazione del suo pessimismo: “Nella sua forma più originale e autonoma, il romanzo poliziesco presuppone una metafisica: l’esistenza di un mondo ‘al di là del fisico’, di Dio, della Grazia – e di quella Grazia che i teologi chiamano illuminante. […] Ma in un paese cattolico come è cattolica l’Italia, la Grazia Illuminante non è di casa. […] Questa è, a mio parere, la principale ragione per cui non c’è un romanzo poliziesco italiano. La seconda ragione […] ce la suggerisce Borges: l’ordine, l’assenza di ordine nella vita di questo nostro paese.   […] Da noi l’idea dell’ordine evoca il disordine più profondo: vedi il fascismo” (p. 77).

   La seconda sezione (quattro saggi) concerne le considerazioni sulla scrittura di Simenon e sul suo personaggio: il commissario Maigret, della polizia giudiziaria parigina: Maigret “non è un poliziotto privato [come la maggior parte di quelli della narrativa americana]. […] Poi è un personaggio e non un tipo. […] Dal 1930 […] ad oggi, l’abbiamo visto diventare sempre più vivo, più umano, più reale” (p. 73). “Ad un certo punto, anzi, partecipa di una doppia esistenza: quella di personaggio fantastico e quella di personaggio reale, come certi personaggi di Unamuno e di Pirandello: e polemizza col suo autore, ed afferma i propri diritti, la propria realtà. Un giuoco, si capisce […], ma non si può negare che, sotto il giuoco che Simenon abilmente conduce nelle Memorie di Maigret, ci sia un piccolo dato di verità: che, cioé, la vita del personaggio  ha ormai acquistata una specie di autonomia nei riguardi del suo autore” (p. 95). Per concludere: “Si può senz’altro dire che è  attraverso Maigret che Simenon arriva ad una poetica: a riflettere cioé sui propri mezzi, sulla propria vocazione. La poetica dell’uomo che non pensa, dell’uomo che vede, soltanto vede. […] E’ il vedere gli uomini e l’amarli si possono considerare come qualità peculiari di Simenon. ]…]  Maigret  vede: perché ama.[…] E’ certo uno degli scrittori del nostro tempo più vicino alle ragioni umane, all’uomo com’è” (p. 103). E inoltre: “Si può dire che […] il personaggio nasce nel momento stesso in cui Simenon comincia a scrivere, e Maigret è non soltanto personaggio, ma modo di scrivere, concezione dello scrivere. […] Siegfried Kracauer dice che gli organi per ottenere la tranquillità pubblica, la sicurezza, l’ordine […] sono gli uffici di polizia. […] Il pensiero corre a Maigret. […] Tutto ciò che Simenon rappresenta di inquieto, di ribollente, di disordinato nelle coscienze e nei fatti, trova un metodo, una categoria, un principio che è di tranquillità, di sicurezza, d’ordine. Il metodo, la categoria e   il principio del commissario Maigret” (p. 108).

   L’ultima sezione (dieci articoli) tratta dei più noti “giallisti” apparsi in traduzione italiana o italiani tout court. Si inizia con Mickey Spillane, che per Sciascia rappresenta il massimo della “degenerazione del romanzo poliziesco verso forme di erotismo e di pornografia”, che si accompagna a “una degenerazione egualmente notevole verso forme di propaganda politica” (non ama i giudici e le giurie e i colpevoli li uccide direttamente colpendoli al ventre, mentre per i comunisti abbraccia il mitra). E commenta: l’ultima parte della “frase finale è tipica della manifestazione di quella ‘collera degli imbecilli’ che è il fascismo” (p. 113).

   Gilbert Keith Chesterton ha inventato il personaggio di Padre Brown, “un prete cattolico […] che si diletta ad investigare e risolvere fatti criminali o comunque misteriosi. […] Nella letteratura e agiografia cattolica non si trova precedente alcuno in questo senso” (p. 115). Ma è nella frase seguente che si ha uno di quei micidiali esempi della sua ironia: “Entra in giuoco, insomma, il peccato originale: basta cadere sotto l’occhio di Padre Brown perché la macchia dell’originale peccato affiori. […] Padre Brown, per le sue qualità divinatorie e illuminanti, rappresenta addirittura la Grazia. Ed è il caso di dire: troppa Grazia” (p. 118).

   Per Edgar Wallace afferma che “intorno al 1930 i suoi romanzi erano davvero gli ultimi modelli in fatto di letteratura poliziesca. […] Ma è assolutamente sprovvisto di ispirazione umana e di misura d’arte: […] giocò in tutta la sua intensa carriera con personaggi sempre uguali, vere e proprie  maschere della commedia dell’arte” (p. 121).

   Sherlock Holmes è il personaggio creato da Arthur Conan Doyle: “la sua opera di investigazione si svolge al di là della morale, non ha carattere sentimentale né esigenza di giustizia; è puro arabesco, puro esercizio di capacità razionali e deduttive. Sherlock Holmes è insomma l’esteta dell’investigazione, l’Oscar Wilde della criminologia” (p. 122).

   Di Friedrich D?rrenmatt Sciascia prende in considerazione il racconto La promessa e la commedia La visita della vecchia signora: nell’uno e nell’altra “c’è il giuoco astratto della logica, di una logica sottratta alla ragione. […] Ma il racconto è un requiem per il romanzo giallo appunto perché la logica astratta del poliziotto viene sconfitta” (p. 126).

   Per William Riley Burnett  (dal suo romanzo Giungla d’asfalto John Huston trasse il film omonimo, con Marilyn Monroe, nel 1950) Sciascia afferma: “Dal ‘culto della semplicità’ e dalla frequentazione della ‘piccola Italia’ di Chicago, cioé i quartieri italiani e prevalentemente siciliani   della grande città americana, Burnett è portato a considerare Giovanni Verga come uno dei più grandi scrittori realisti del mondo. Perché il culto della semplicità non basta per capire Verga: ci vuole una esperienza e conoscenza di quel suo mondo, di quel ‘modo di essere’ che è la Sicilia” (p. 131).

   Il primo autore italiano è Augusto De Angelis, che “tentò di fare un romanzo poliziesco italiano. Ma di italiano, nei suoi romanzi, non c’è che il commissario De Vincenzi. […] In Italia la realtà non offre che ‘gialli’ senza soluzione: e perciò la rappresentazione narrativa di un’inchiesta poliziesca che, di fronte a un crimine o una serie di crimini misteriosi, arrivi a chiarirne i modi e i moventi e ad assicurare alla giustizia il colpevole, risulta sempre inattendibile se non addirittura falsa” (p.135).

   Hercule Poirot è il personaggio uscito dalla penna di Agatha Christie: “una sua storia poliziesca ha sempre un che di natalizio – come una reversione e perversione, come una parodia freddamente e sottilmente feroce, di quelle che sono le festività natalizie – tra Natale ed Epifania nei paesi cattolici mediterranei” (p. 139).

   Il secondo autore italiano, Corrado Augias, ha scritto “due ‘gialli’ di spionaggio ambientati nella Roma dannunziana e giolittiana, nell’imperante liberty” (p. 147) Si tratta di una palese parodia del Piacere di  D’Annunzio (somiglia anche il nome del protagonista, Sperelli, Giovani anziché Andrea): sono “romanzi misti di cronaca e d’invenzione, in cui cronache politiche, letterarie e mondane trovano articolazione in una trama poliziesca condotta con sufficiente suspense, ma sempre  con quel distacco che è proprio alla parodia” (p. 149). La rassegna si conclude con Geoffrey Holiday Hall, di cui si conosce un unico romanzo: “avevo l’impressione che […] quel giovane scrittore avesse fatto i suoi latinucci su altri maggiori, e su Faulkner specialmente” (p. 152).    

                                                                                               

LEONARDO SCIASCIA, Il metodo di Maigret e altri scritti sul giallo, Adelphi, MI, 2018, € 13,00.

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