Laus vini, così a Bisanzio si narra del frutto della vite che è il segreto dei giorni

di Silvia Gambadoro

“In pace è un contributo, in guerra è un alleato: niente senza il vino, né feste nuziali, né banchetti, né conviti, né divertimenti, né svaghi. Ciò infatti che è il sale per i cibi il vino lo è per il sale stesso e per gli altri alimenti”. Parola di Michele Psello (1018-1096), autore che è stato uno dei più grandi e fecondi studiosi della corte di Bisanzio. Tra testi di scienza, medicina, filosofia (in particolare commenti ad Aristotele e Platone, il colto intellettuale trovò anche il tempo di tessere un Encomio del vino. Laus vini (ora ripubblicato con introduzione, traduzione e note a cura di Lucio Coco per le raffinate pagine di Leo S. Olschki editore, pp. 25, euro 5), che non è da lodare solo per l’aroma e la dolcezza, dal momento che è il primo dono che Dio fece agli uomini dopo il diluvio (Gen 9,20). Pertanto – è la morale del breve e intenso scritto – se qualcuno beve troppo la colpa non è da attribuire al vino: non è il frutto della vite che deve essere rifiutato quanto piuttosto “l’intemperanza, nella consapevolezza che per tutto la cosa migliore è la misura e la peggiore parimenti in tutto è sia l’eccesso che il difetto”.

Perciò, il vino è buono: “rallegra il cuore, incita alla gratitudine, muove al canto, genera commozione e richiama le lacrime che rendono propizio Dio, fornisce delle opportunità anche con i nemici”. L’aggiunta del pane non toglie niente al vino: “in questa circostanza – rimarca il dotto bizantino – ognuno ha infatti bisogno dell’altro e piuttosto, per dirlo in breve, essi sono in totale relazione. Se uno separasse il pane dal vino, priverebbe il corpo dell’anima”. Tra gli ineguali sentieri della storia, a caccia di senso e di un volto che rimanga nelle tavole di carne del cuore, il vino è compagno di viaggio, sangue divino nei mistici sacrifici e parola amica per ogni abbraccio che resta.

 

 

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