I pittori sono filosofi, i filosofi pittori, diceva Giordano Bruno. Ma la vita non fa sconti e per chi non ha il 'dono di saper campare' la strada porta al nero delle scelte perdute. “Serba il vestito da che è nuovo e l’onore fin da giovane”, dice un proverbio maledetto, ficcato in bocca a un avvocato. Quell’uomo con la passione per i libri è l’unico che va a trovare un uomo in cella, che narra ai muri la propria storia. Dagli abissi di una umanità sconfitta, si interroga sul saper vivere, un talento che mancava anche a Caravaggio. Nel suo libro Il dono di saper vivere (Einaudi, pp. 196, euro 17,50), Tommaso Pincio ci conduce ne seducente labirinto di una storia perduta, dove i chiaroscuri del pittore maledetto si intrecciano alla carnalità di altre ricerche di senso o di un modo per stare al mondo. L’uomo lavorava in una galleria d’arte, per inerzia. “Il possesso di un’opera d’arte è il più sublime dei bisogni effimeri che un uomo possa inventarsi. Ma proprio per questo anche il più solido”.
Nell’anno di grazia 1606 il pittore pieno di collera e di talento infilò la spada nell’arteria femorale di Ranuccio Tomassoni, uccidendolo. Il fatto avvenne a Roma, in via della Pallacorda. E’ proprio lì, lungo una strada la cui forma ad «y» è cifra delle biforcazioni che impone il destino, che lavora il protagonista di queste pagine, aperte a sempre nuove ermeneutiche. Di lui sappiamo che si è diplomato all'accademia e che per guadagnare qualche soldo prova a piazzare dei telefax Olivetti nelle botteghe del centro. Entrato in una galleria d'arte che ha lo stesso numero civico dell'abitazione dell'antico omicidio, dopo aver conosciuto l’ansiosa Diletta che tiene in ordine i conti della bottega, nota che dalla parete pende un dipinto con la decapitazione di Golia del Cavalier d'Arpino. Il proprietario della galleria si fa chiamare l'Inestinto: lo porta a bordo allungandoli biglietti da centomila lire, su ognuno dei quali campeggia il volto del pittore assassino; poi gli propone di gestire la galleria. Di questo uomo che si racconta in prima persona e in carcere sta nudo (indossa il vestito cucito decenni prima solo per incontrare il suo legale) scopriamo che da ragazzo veniva chiamato Il Melancolia, che aveva studiato all’Accademia di Belle Arti. In cantiere, da una vita, ha un libro sul Caravaggio di cui non ha mai scritto una riga. Quella bugia gli uscì dalle vene per darsi un tono e gli è rimasta marchiata a fuoco, come l’amore-odio per il Caravaggio, da lui rinominato ‘Il Gran Balordo’.
Tra la sua storia e quella del pittore “huomo satirico e altiero”, come lo definì Giovanni Baglione (non senza forzare la mano), scorre la maledizione di non saper vivere. Ma nelle vene delle due storie si consuma anche il dramma delle scelte, la ruota degli incontri, la legge della necessità e l’Arcisenso. In fondo nella topologia di ogni carne che sta al mondo abita un desiderio e una speranza spezzata, una ribellione cui si è dato voce o che ha portato a una condanna, a parlare con “gli odiati muri” di una prigione.
La Vergine di Michelangelo Merisi ha il volto di una cortigiana il cui cadavere è stato ripescato dal Tevere. Che strano personaggio quel pittore che morì ‘malamente’ sull’assolata spiaggia di Porto Ercole. Finì i suoi giorni come aveva vissuto, dicono alcuni sui maligni biografi. Per lui, fu la scelta di autoritrarsi a imporre la morte come tema. Non per niente firmò un solo quadro, la Decollazione di San Giovanni Battista, e lo firmò con il sangue che schizza dalla testa del santo. Aveva intuito “prima di chiunque altro che le immagini non potevano essere immuni dal rumore troppo a lungo; che la strada bussava ormai alle porte del loro mondo ideale e, senza aspettare risposta, le avrebbe sfondate”. Lo sfondo, la prospettiva, la profondità erano per Caravaggio “quel che la gente avrebbe detto dei suoi quadri”. Il quadro è costruito per contrasti. La luce si oppone al buio. Rivoluzione pittorica che archivia – per sempre – una pittura (di altri) fatta solo di emulazione. La pittura di Caravaggio è stata antitesi, “antimalinconica perché indifferente ai ruderi, perché affondata nel presente e al marmo delle statue preferiva la carne della moltitudine degli huomini”.
Ma il “passato è un lusso da proprietari”. La strada chiama sempre al giorno. Non ci sono ricette buone per stare al mondo: “E mi domando se per noi semplici umani, così pieni di noi stessi e dunque di niente, il dono di saper vivere non consista alla fine nel calarci senza troppe paure né pretese nella parte che qualcuno ha scritto per noi, confidando che un copione c’è, anche se non lo abbiamo letto”.