Milano, 18 luglio 2019 – Di recente finalista per Addio Fantasmi al Premio Strega, Nadia Terranova in Omero è stato qui (Bompiani/ Giunti, MI/FI, 2019), ci narra i principali miti e leggende popolari dello Stretto di Messina. Dice lei stessa: “Sembra un posto come tanti altri, lo stretto di mare fra Messina e Reggio Calabria, e invece è unico, è un territorio incantato e mitologico abitato da spettri e da giganti, da mostri greci e fate nordiche, da ninfe, nocchieri e sirene di ogni parte del mondo” (p. 9). E aggiunge:”I miti e le leggende che lì ho respirato sono state le mie favole dell’infanzia. Le avevo dentro come l’aria, l’acqua e l’immaginazione” (p. 10); “non sono sicura che mi suonassero davvero nuove quando le ho ascoltate per la prima volta. Piuttosto: si stavano accordando a una musica che era già lì, dentro di me” (p. 9).
La prima storia narrata è quella di Scilla e Cariddi, che l’autrice a scuola aveva ascoltato attraverso la lettura del dodicesimo canto dell’Odissea, apprendendo fra l’altro tutto ciò che riguarda la “questione” dell’esistenza di Omero. Per questo, di fronte a quel “mare che Omero tanto bene aveva descritto”, può concludere: “Forse non è mai esistito, però di sicuro una volta è stato qui” (p. 11). Con molta leggerezza sono poi narrate le vicende della trasformazione delle “due ragazze pericolose” in mostri marini, dell’incontro dell’ex pescatore Glauco con Scilla, della fame insaziabile di Cariddi: “Cariddi, colei che risucchia, e Scilla, colei che dilania, sono dunque le guardiane dello Stretto: chiunque lo attraversi deve stare attento alla correnti che dal Tirreno vanno verso lo Jonio e viceversa. I vortici e i mulinelli sono opera di Cariddi, le onde alte e aggressive di Scilla” (p. 19). “Scegliere fra Scilla e Cariddi è così diventato anche un modo di dire, e sta a indicare quelle situazioni che pongono di fronte due pericoli inevitabili, quando per un verso o per l’altro non c’è scampo” (p. 20).
Si saltano molti secoli con la storia successiva, quella di Mata e Grifone, perché avvenuta “al tempo in cui i saraceni conquistarono la Sicilia” (p. 21). Grifone era scuro di pelle e di corporatura maestosa, e distruggeva la città alla ricerca di Marta, detta Mata, figlia di un principe di Castellaccio dimorante in una zona della città chiamata ancora oggi Camaro (non si può non notare come la fantasia dell’autrice riesca a cucire insieme vari ingrediente reali). Data la loro altezza sono chiamati dai messinesi “i Giganti” e vengono considerati “in un certo senso i rifondatori della città e loro numi tutelari: sono lì a ricordare quanto ogni cosa, in tutto il mondo, nasca dall’attrazione e dall’amore fra gli opposti” (p. 24).
La vicenda che segue, quella della Fata Morgana, risale al medioevo “cavalleresco” di Artù e del c.d. “ciclo bretone”. Artù, ormai vecchio, sconfitto da suo nipote, venne salvato dalla sorellastra Morgana, “fata e guaritrice dotata di poteri soprannaturali” (p. 27), che lo trasportò sulla sua barca, dove nella prua era disegnata la triscele, simbolo celtico che “oggi è quello dell’isola, e ricorda a tutti il viaggio di Morgana che unì il nord al sud dell’Europa, i popoli normanni a quelli siciliani” (p 29). E salvò poi il fratello e la stessa isola da un “re nemico venuto dal nord” (p. 30) attraverso un miraggio, che fece apparire vicine le due rive dello Stretto e raggiungibili a nuoto. “Da allora, ogni volta che avverte un pericolo, la fata riaffiora e crea un effetto a specchio fra il cielo e il mare […]: ecco perché chi nasce sullo Stretto, durante le giornate troppo belle d’estate, sa che deve stare attento a non cascare nell’illusione” (p. 32).
Le eroine Dina e Clarenza non appartengono più all’immaginario fantastico ma alla storia reale, quando il 30 marzo del 1282, a Palermo scoppia la rivolta del Vespro. Il 28 aprile di quell’anno anche Messina si era ribellata e il sovrano Carlo I d’Angiò inviò un grande esercito a reprimere la ribellione. I messinesi avevano lasciata scoperta una parte della cinta muraria e furono salvati proprio dalle due donne:”una, di nome Dina, lasciò rotolare dei grossi massi dalle mura che colpirono e sbaragliarono i nemici, mentre l’altra, Clarenza, raggiunse correndo la torre del Duomo e cominciò a suonare con furia le campane” (p. 55).
Segue la storia di Colapesce (l’autrice ne spezza la grafia in due tronconi), forse il più “messinese” dei miti e, certo, il più trattato dai narratori di oggi e di ieri (si ricordi per tutti la trattazione che ne ha fatto Giuseppe Cavarra, ne La leggenda di Colapesce [Intilla, ME, 1998], che, a partire dal Pitré risale a Salimbene de Adam, nel 1200, e a Francesco Maurolico nel 1500). Colapesce, che l’autrice fa dimorare a Torre Faro, è tanto abituato a stare in acqua che si trasforma per metà in pesce. E la sua fama è tale che anche il re lo mette alla prova, invitandolo a ripescare l’anello che aveva gettato in mare. Colapesce vince la prova, ma da quel giorno non risalirà più in superficie, perché dovrà sorreggere una delle tre colonne su cui poggia l’isola, dissestata e traballante. Proprio quando Colapesce sposta il suo carico sull’altra spalla avvengono i terremoti e questi richiamano quello, terribile, del 28 dicembre 1908, che distrusse del tutto Messina e Reggio. E poiché “i centri delle due città furono ricostruiti sopra le macerie”, essi sono “popolati da fantasmi, così come lo è il mare fra loro” (p, 44). Vengono ricordati il ragazzo che vaga sui due litorali, quelli che disturbano i viventi nella zona dell’ex torrente Annunziata, il bambino che si accosta alle macchine che risalgono dall’ex torrente Boccetta e la ragazza bionda nei pressi del Monte di Pietà. ”Non credete ai fantasmi? Poco importa: loro credono in voi. […] Siate gentili con queste inquiete creature […]. In fondo un fantasma è solo una persona che sta chiedendo di non essere dimenticata” (p. 46).
Si chiama Capo Peloro il promontorio dove terminano le propaggini di Messina e “peloritano”è un aggettivo usato come sinonimo di “messinese”. Il nome viene dalla ninfa Pelorias, che abitava nelle paludi dove ora sorgono i due laghetti di Ganzirri e Faro. Ma Peloro era anche il nocchiero di Annibale, che lo scaraventò in mare per errore e al quale, poi, fece innalzare una statua – oggi non più esistente – come segnale per i naviganti. C’è infine la versione di Peloro/Orione, un cacciatore di cui, contrariamente a Colapesce che nuotava sott’acqua, Virgilio dice che “sovrastava le onde con l’omero” (“umero supereminet undas”, En., X, 763/5). Orione/Peloro era uso inseguire le Pleiadi a settentrione dello Stretto, e fu assunto dopo la morte nell’omonima costellazione: l’archeologo Ciàceri riferiva a lui, come inseguitore, l’immagine della lepre che corre coniata sui tetradrammi di Messene nel V sec. a. C.-
Con un movimento circolare, l’autrice fa terminare la sua perlustrazione mitico-leggendaria da dove era partita: dal dodicesimo canto dell’Odissea, perché – scrive – “prima di essere sconfitto dai mostri, Ulisse era scampato a un altro pericolo: quello delle sirene che abitavano un’isola vicina allo Stretto” (p. 52). E racconta in breve: “Circe suggerisce a Ulisse di tappare con la cera le orecchie dei suoi uomini e Ulisse segue il consiglio. Per sé, però, sceglie un’altra soluzione […]. Per lui la curiosità e il rischio sono forme di conoscenza” (p. 52).
Con uguale moto circolare, cioé richiamando l’ispirazione omerica, piace anche a noi concludere questa recensione. Citando quanto ha fatto Sergio Palumbo, in D’Arrigo, Guttuso e i miti dello Stretto (Le Farfalle, Valverde [CT], 2016), “di fronte a un progetto comune di mitopoiesi, di rivisitazione di miti classici, leggende e racconti popolari legati al microcosmo dello Stretto”, in particolare negli anni ‘49/50, quando Guttuso e i suoi compagni pittori soggiornarono a Scilla e l’amico Stefano D’Arrigo (e altri) lo andarono a trovare. Ricordiamo che la trasposizione pittorica di “Ciccina Circé che passa ‘Ndrja Cambria per lo scill’e cariddi” (lettera di D’Arrigo a Palumbo del settembre 1989) fu fatta poi da Luigi Ghersi in un affresco sito all’Università di Messina, mentre Guttuso nel 1985 affrescò la cupola del Teatro Vittorio Emanuele di Messina con Colapesce e le Sirene.
NADIA TERRANOVA, Omero è stato qui, Bompiani/Giunti, MI/FI, 2019, €10,00.
Nadia Terranova (Messina, 1978) vive a Roma. Per Einaudi Stile Libero ha scritto i romanzi Gli anni al contrario (2015, vincitore di numerosi premi tra cui il Bagutta Opera Prima, il Brancati e l'americano The Bridge Book Award) e Addio fantasmi (2018, finalista al Premio Strega). Ha scritto anche diversi libri per ragazzi, tra cui Bruno il bambino che imparò a volare (Orecchio Acerbo 2012), Casca il mondo(Mondadori 2016) e Omero è stato qui (Bompiani 2019). È tradotta in Europa e negli Stati Uniti. Collabora con «la Repubblica» e altre testate.
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moneta greca del V secolo a.C.