#quasifumetto 4: Stanze delle meraviglie

Aspettando la maturità

Lo so. Anche tu, proprio come me, hai trascorso gran parte dei tuoi anni verdi dicendoti che avresti affrontato la lettura di alcuni libri particolarmente voluminosi quando, con il tempo, la voglia di strappare brandelli di vita a morsi si fosse un po’ attenuata. Abbiamo aspettato la maturità – e la saggezza che ne sarebbe conseguita – convinti che, a un certo punto, quei libri avremmo potuto finalmente leggerli.

Facciamo così. Ti confesso i miei peccati. I libri che avrei dovuto leggere – lo so – e che non sono mai riuscito ad affrontare. Poi, tu mi dici i tuoi.

Non ho mai letto, e mi limito a qualche esempio eclatante, Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust (con le sue duemilacinquecento pagine), Guerra e pace di Lev Tolstoj (1.500 pagine), Il signore degli anelli di J. R. R. Tolkien (1.300), Delitto e castigo di Fedor Dostoevskij (600), Moby Dick di Herman Melville (600), Il rosso e il nero di Stendhal (600) e Orgoglio e pregiudizio di Jane Austin (500). Certo. Li ho tenuto tra le mani, magari li ho anche iniziati, in alcuni casi ero proprio convinto che mi sarebbe stato facile… Eppure, dopo un po’ mi dicevo che non era il loro momento e che dovevo aspettare.

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Non erano, sicuramente, la lunghezza del romanzo e il tempo necessario ad affrontarlo a frenarmi. Leggevo tomi voluminosissimi. A volte ne godevo tantissimo: considero, per esempio, Stephen King un romanziere straordinario, meritevole di essere premiato con un Nobel, i cui romanzi non riesco a leggere da più o meno un quarto di secolo. Altre volte mi annoiavo o non capivo, ma proseguivo con ostinazione, convinto che qualcosa mi sarebbe rimasta appiccicata addosso (spoiler: come vedi, è stato uno sforzo inutile).

Da un po’ di tempo a questa parte mi piacciono i libri sottili. Godo della brevità. Considero uno spessore inferiore ai due centimetri una qualità letteraria irrinunciabile. Sono un abitudinario e raramente riesco, con il mio agire, a cogliermi alla sprovvista. Sono così abitudinario che ancora mi ricordo lo stupore di quella volta in cui, una dozzina di anni fa, mi è piombato tra le mani La straordinaria invenzione di Hugo Cabret di Brian Selznick.

Ancora di case e finestre

Lo vedo, appoggiato sul banco di una libreria: un volume cartonato, che pesa un paio di chili e porta a spasso con orgoglio le sue seicento pagine, stampate su carta uso mano ad alta grammatura, avvolgendole in una sovraccoperta blu. In copertina, il titolo e il nome dell’autore sono stampati su una mongolfiera, fatta di ingranaggi di orologio, che sorvola una Parigi resa riconoscibile dalla presenza della Torre Eiffel.

La gioia che mi produce quella copertina mi costringe a sollevare il mattone cartaceo, a soppesarlo e a guardarlo ancora un po’. Sulla costa c’è l’occhio di un ragazzo che mi scruta curioso. Resto a fissarlo un attimo di troppo, poi intimidito, ruoto il libro tra le mani, un po’ perché il contatto visivo mi mette sempre in imbarazzo, un po’ perché a quel punto il libro mi ha già stregato. Osservo lo spesso bordo e noto che è nero. Mentre mi chiedo cosa possa indurre un grafico a rinunciare al nitore abbacinante del bianco, ci appoggio il polpastrello del pollice e lo lascio scivolare rapidamente sulle pagine, sventagliandole lievemente. A quel punto, mi coglie la meraviglia: tantissime illustrazioni, racchiuse in una cornice nera.

Apro il libro, salto l’epigrafe e la mezza paginetta di introduzione. Voglio guardarlo per bene. Ad accogliermi c’è la luna in un disegno piccolo che, pagina dopo pagina, cresce, cresce e cresce. Un paio di pagine e sono a Parigi; altre due ed entro in stazione; e, lì, inizio a seguire un ragazzo in una serratissima sequenza di disegni. In un paio di minuti ho sfogliato una quarantina di pagine e mi ritrovo a scrutare un anziano giocattolaio con il pizzetto e lo sguardo triste da una finestra molto stretta. La pagina successiva contiene

parole, composte con un pregevole carattere graziato all’interno della cornice nera che mi accompagnerà fino all’ultima pagina. La stessa cornice che scurisce i bordi del libro.

Le parole e le cose

Quando nel 2007 mi sono imbattuto in Hugo Cabret, non sapevo chi fosse Brian Selznick. Distratto come sono, non avevo visto le illustrazioni che aveva donato a Frindle di Andrew Clements. Quel romanzo per ragazzi, uscito anche in italiano con il titolo Drilla, è uno straordinario trattato di linguistica che spiega perché le parole significano quello che significano. Non conoscevo neppure i tre bei libri che Selznick aveva scritto e illustrato negli anni Novanta del secolo scorso. Certo, nessun editore italiano, in quel momento, aveva fatto qualcosa per rendermi la vita più facile, ma – dannazione! – poco tempo dopo avrei scoperto che contenevano i racconti interessantissimi di un autore rorido di ossessioni.

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Tutte le informazioni che avevo erano lì, tra le mie mani, in quei due chili di carta compattati in una copertina rigida. Innanzitutto c’era la dedica: «a Remy Charlip e David Serlin». Sono abituato a non riconoscere i nomi presenti nelle dediche e, ingenuo come sono, non ho avuto alcun fremito. Ho continuato a ignorare Serlin fino a qualche giorno fa. Poco tempo dopo l’incontro con Hugo Cabret, grazie al lavoro di Fausta Orecchio e alla sua casa editrice Orecchio Acerbo, avrei scoperto i meravigliosi libri illustrati di Charlip. Mi pare che il meraviglioso e avventuroso Fortunatamente, uscito negli Stati Uniti nel 1964 e in Italia nel 2011, abbia influenzato tantissimo Jules Feiffer, uno dei miei quasifumettisti preferiti. Ma di questo parliamo un’altra volta. L’amore per quel libro e la facilità di accesso a qualsiasi informazione superficiale, grazie all’esistenza dei motori di ricerca, mi hanno permesso di vedere Charlip in volto e – sorpresa! – ho scoperto che è lui l’anziano giocattolaio con il pizzetto canuto.

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L’altra notizia fondamentale è in quella luna racchiusa in un quadro piccolo che apre La straordinaria invenzione di Hugo Cabret. Considero Nel paese dei mostri selvaggi di Maurice Sendak, uscito nel 1963, uno dei libri più importanti del Novecento. L’averlo letto centinaia di volte seda in parte i sensi di colpa che mi assalgono al pensiero delle mie mancanze nei confronti di Proust, Tolstoj, Dostoevskij e Melville. Una delle – moltissime e tutte pertinenti – letture possibili di quel libro evidenzia come le immagini, partendo da uno spazio risicato, possano conquistare l’assoluta predominanza narrativa, costringendo le parole a sparire in pagine niente affatto silenziose. Ecco… è lì il segreto del meraviglioso libro di Selznick.

In quel volume si alternano pagine contenenti immagini a matita e carboncino e pagine di sole parole. La malattia più grave che può colpire un libro illustrato è il didascalismo. Autori ed editori spaventati dal racconto spesso non riescono a permettere alle parole e alle immagini di accoppiarsi come pare a loro. Reputano questo atteggiamento scabroso e contronatura. Sono certi che il codice iconico e il codice verbale debbano essere nettamente separati, ma non si fidano né dell’uno né dell’altro. Ogni singola immagine deve essere accompagnata da parole che, mostrando di non temere la ridondanza, eccedono in ripetizioni e contraddizioni.

In Selznick le sequenze di immagini e quelle di parole non si sovrappongono mai. Non ci sono ridondanze; non ci sono contraddizioni. Il racconto prosegue, senza paura, in un’alternanza di codici. Gli scarti tra le pagine scritte e quelle disegnate sono sempre percettibili visivamente e mai narrativamente. Non succede mai che un personaggio cambi aspetto o carattere per come è raccontato in quel frantume di narrazione: la sua vita prosegue fluidamente tra parole e immagini.

Ci vuole una dose di umiltà immensa per riuscire a tenere sotto controllo la scrittura e il disegno. E Selznick pare averne un bel po’. Senti un po’ qual è stata la gioia più grande scatenatagli da un libro che gli ha garantito fama, ricchezza e il premio più importante che un narratore per ragazzi possa conseguire:

«Quando il libro ha vinto la “Caldecott medal”, ho invitato Remy Charlip ad assistere alla premiazione. Aveva avuto un infarto poco dopo che ci eravamo conosciuti ed era molto

debole, ciò nonostante era anche entusiasta di partecipare. Mentre facevo il mio discorso, l’ho ringraziato e ho detto al pubblico che Remy era seduto lì, in mezzo alla sala. Tutti quanti i librai presenti, duemila circa, si sono alzati in piedi per applaudire e gli hanno tributato una “standing ovation”. Non dimenticherò mai la gioia sul suo volto, catturata dalla videocamera che stava registrando l’evento. Il suo volto era lì, in alto, sul grande schermo, tutti rimanevano in piedi e applaudivano e io pensavo: ”Ora so perché il mio libro ha davvero vinto… solo perché io avessi la possibilità di regalare questo momento a Remy…”»

Scimmiottamenti

È difficile mantenere la concentrazione dopo aver realizzato un’opera così bella, importante e diversa da tutto il resto. Chiedilo a Orson Welles che, quando ha scritto, diretto e interpretato Quarto Potere (1941), aveva appena venticinque anni. Selznick è arrivato a Hugo Cabret quarantenne. Da quel momento i suoi rapporti con l’editoria devono essere diventati piuttosto complessi. I due libri successivi, Wonderstruck (2011) e The Marvels (2015), soddisfano così tanto le aspettative del suo pubblico da sembrare l’esecuzione pedissequa di una commissione. Entrambi hanno oltre 600 pagine, sono stampati su carta uso mano bianchissima ad alta grammatura, hanno la sovraccoperta blu e l’occhio di un ragazzo o di una ragazza in costa, alternano pagine di sole parole a pagine di sole immagini e rispettano tutte le regole del gioco definite dall’autore stesso per Hugo Cabret. Libri molto belli, da leggere con interesse, ma, ormai, l’amore, quello vero, quello che strappa i capelli, non c’è più, è perduto. Bisogna ritrovarlo.

I nomi presenti nella dedica di quel libro seminale erano due. Pare proprio che Selznick abbia ripagato il suo debito d’onore con Charlip. Un lungo applauso fuori programma durante il conferimento del premio più importante che un picture book possa avere in occidente, quello intitolato a Randolph Caldecott. Di David Serlin, i lettori distratti come me continuavano a non sapere nulla. Certo, una rapida indagine, eseguita aprendo un motore di ricerca, avrebbe immediatamente chiarito che questo signore è un professore universitario di comunicazione, lo sporadico autore di libri per bambini, il proprietario di un viso simpatico, indossato con noncuranza sotto un cranio calvo e dietro occhiali spessi, e, infine, il marito di Brian Selznick. Pare che, dopo The Marvels, Tracy Mack, l’editor con cui Selznick è solito lavorare, abbia trovato il coraggio di chiedere un cambiamento. Pare che, di fronte alla proposta del quarto tomo nel medesimo formato, abbia trovato il coraggio di dire: «E se dessimo una tregua ai tuoi lettori?»

Se ti è mai capitato di parlare con un editor (uno di quelli che postano messaggi tronfi e vacui accanto allo hashtag #vitadaeditor), anche tu come me hai avuto un brivido di gioia: c’è vita nell’universo e la signora Mack è una professionista che interagisce con un autore importante e interviene fattivamente nelle sue scelte, anche accollandosi un rischio commerciale.

Brian Selznick ha messo sul piatto un gioco d’amore: La scimmietta detective delle cui imprese favoleggia in intimità con il marito, da quando si conoscono. I due hanno realizzato un picture book lunghissimo (192 pagine) se paragonato ai canonici albi da 32 pagine, ma un libretto agile e veloce in confronto agli ultimi lavori. È la storia di una scimmietta che, nella piena tradizione del poliziesco hard boiled, aspetta i clienti chiusa nel suo ufficio da detective. Non appena gli si presenta un caso, lo risolve con una efficacia inaspettata. Una grande capacità di indagine che la rende infallibile. Ma prima di mettersi al lavoro, la scimmietta deve confrontarsi con una sfida impossibile: riuscire a indossare i pantaloni.

Un libro bello e lieve, nuovo e divertente, rivolto a bambini che ancora non leggono e corredato da una strepitosa bibliografia impossibile.

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