Era il figlio della serva e non ha mai saputo chi fosse suo padre. Ha abbandonato gli studi a quindici anni per iniziare a lavorare. Poi si è messo a disegnare. Con forza e rigore, e con una grazia che può sembrare grossolana. A diciannove anni già faceva parte del nucleo originario di “Hara-Kiri”, settimanale satirico fondato da Cavanna, dal professor Choron e dal sublime Fred che, un decennio dopo, si sarebbe trasformato in “Charlie Hebdo”. Per tutta la vita ha disegnato e raccontato storie con un segno elegantissimo. Non è durata tanto quella vita. È morto a quarantadue anni per un tumore osseo. Si chiama Reiser ed è uno degli autori più grandi espressi dal Novecento.
Davanti a un bicchiere di vino siciliano così così, qualche sera fa, chiacchieravo con l’amico Mattia. Stavamo lodando i suoi fumetti, riraccontandoceli, dicendoci il gesto del disegno e sperando di esserne illuminati. Facevamo le moine solite di chi gode di una comune passione. Hai presente i vecchietti che discutono per ore di una giocata sbagliata a tressette o gli avventori del bar che si avviluppano intorno all’errore di arbitraggio di quel cornuto che ha fatto perdere la squadra del cuore? Ecco. Proprio così.
Siamo arrivati prestissimo al Porcone, il personaggio in mutande che Fabian, un altro amico attento e sensibile, una volta ha definito “il coglione sinistro più geniale della storia”. È stato quello il momento in cui Mattia mi ha spiazzato. Ha detto: «Il Porcone è intelligentissimo e aristocraticissimo; Reiser era l’uomo più intelligente del XX secolo e il Porcone era la sua proiezione meglio riuscita; per questo lo ha fatto ammazzare».
Mi ha lasciato senza parole. Sono lento nei ragionamenti; spesso devo lasciare che le idee raggiungano il fondo limaccioso della mia coscienza e che rimangano lì per un po’. Poi torno, scandaglio con le dita, e guardo se trovo ancora qualcosa.
Ha ragione Mattia: mentre la borghesia, come un Esaù qualsiasi, ha rinunciato a tutto per un piatto di lenticchie, Il Porcone ha deciso di rimanere saldamente attaccato alla sua libertà, aprendosi le vene con il bordo affilato di una scatola di fagioli.
Passato per le lame
Nel 1972 Ralph Bakshi ha trentaquattro anni ed è pronto per il grande salto. Ha iniziato presto a lavorare: diciottenne, nello studio di Paul Terry, ha imparato tutti i mestieri dell’animazione. Alla fine degli anni Sessanta si era sentito pronto ad aprire il proprio studio e, famelico, andava a caccia di idee girovagando per l’East Village. Passando in una libreria colma di materiali sotterranei era stato folgorato da un albo spillato. La copertina era irresistibile: due gatti antropomorfi, un maschio e una femmina, guardavano il lettore dal divano su cui erano stravaccati; il gatto era nudo a metà, proprio come Paperino, ma, al contrario del collega disneyano, mostrava la propria natura sessuata senza inibizioni, abbracciando la gatta, infilandole una mano sotto la maglia e brancicandole un seno. Il titolo gridava il nome del felino, Fritz il gatto, e uno strillo prometteva “3 grandi storie”.
Ralph Bakshi aveva capito subito che le avventure di quel gatto sessuomane, egoista e amorale potevano diventare il nucleo perfetto di un film con cui scardinare certo infantilismo del cinema di animazione. Aveva cercato di contattare l’autore di quei fumetti – tale Robert Crumb – per ottenere i diritti cinematografici, ma proprio non ci riusciva. Poi aveva scoperto che la moglie del fumettista, Dana, aveva deleghe e procure adeguate per gestire l’affare. Mentre l’autore di Fritz era a San Francisco, lontano dalla casa newyorkese, perso nell’amore disperato per Kathy Goodell, Dana aveva firmato e la transazione era andata in porto.
Una volta ho cenato con Robert Crumb e quell’unica esperienza mi porta a credere sia un tipo mite e gentilissimo. Riesco però a immaginare la rabbia che deve averlo attraversato quando, nell’aprile del 1972, ha visto quel lungometraggio. Ottanta interminabili minuti durante i quali il suo gatto – immobile, silenzioso e in bianco e nero, come può esserlo solo il personaggio di un fumetto underground – si agitava convulsamente in uno scenario denso di colori acidi e lisergici. Abuso, violazione, furto, sevizia, addirittura stupro. Una ridda di sensazioni resa intollerabile dall’impotenza. Crumb è sempre stato il più autobiografico tra gli autori di fumetti e Fritz era una delle prime proiezioni del suo vissuto, dei suoi desideri e delle macerie in cui incappava aggirandosi nel deserto del suo rimosso. Ha fatto la sola cosa che poteva fare: ha ucciso Fritz il gatto con una coltellata. Alla schiena, come un traditore, come un tradimento.
Un coniglio da un altro dove e da un altro quando Per Lewis Trondheim il fumetto è ineluttabile. Ci deve fare i conti quotidianamente e non riesce a smettere. Lotta con il suo corpo: lo immobilizza di fronte a fogli di carta; lo costringe a muoversi all’unisono con matite e penne; lo spreme perché distilli comicità e avventura sulla pagina. È autore di centinaia di libri, ma questa incontinenza narrativa di certo non significa che raccontare gli riesca facilmente.
Il fumetto gli richiede dedizione e controllo. Lo dimostra nel 1992 quando decide di sottoporsi a un incredibile esercizio di stile. Un fumetto di cinquecento pagine; ogni pagina dodici vignette disposte su quattro strisce da tre quadretti; rigoroso bianco e nero; assoluta assenza di sceneggiatura e matite. Narrazione in caduta libera, senza filtri e senza trucchi: «Cado sempre un po’ dalle nuvole», diceva Corto Maltese, la creatura di uno tra i più grandi narratori istintivi che il fumetto abbia mai avuto. Regole rigidissime per acquisire un controllo assoluto sul disegno. Pagina dopo pagina, Trondheim emerge, cambiando gli strumenti, imparando la tecnica e diventando, alla fine, un narratore perfetto. Il suo sforzo viene raccolto in un volume dal titolo Lapinot et les carottes de Patagonie. Da quella incredibile impresa non emerge solo un autore, ma anche un personaggio. Lapinot è un coniglio antropomorfo timido, gentile, scostante, pigro, divertente, spaventato, sensibile, interessato, comico… Troppo umano per essere solo un coniglio, Lapinot è la proiezione più evidente del suo autore. E siccome nessun coniglio è un’isola, il personaggio di Trondheim odia la solitudine: si accompagna con Richard, un gatto opportunista e caciarone che sembra essere l’esatto contrario del coniglio (anche se pare che, dopo accorta cottura, il sapore dei due sia difficilmente distinguibile).
Neanche gli autori sono isole e Trondheim ha una controparte. Si chiama Jean Christophe Menu ed è un autore straordinario. Tanto è facile trovare simpatico e irresistibile Trondheim quanto è impossibile non provare un’istintiva antipatia per l’asprezza e la boria di Menu. Tanto è impossibile non cadere nella rete narrativa e comica di Trondheim quanto è complesso addentrarsi nell’autobiografismo doloroso e sofferente di Menu.
Trondheim produce libri a raffica: ormai sono più di duecento i volumi che riportano il suo nome in copertina. Menu è meticoloso, forse addirittura lento: una trentina di titoli, spesso esili e sottili, in trent’anni di carriera. Trondheim deve trovare editori per i suoi tanti progetti, scandagliare formati, proporre narrazioni seriali e di genere, scendere a compromessi. Menu è un polemista straordinario –in alcune occasioni, si rivela anche un po’ stronzo – e arriva spessissimo al punto di rottura.
Lewis Trondheim prende il suo personaggio e lo mette al centro della serie Les Formidables Aventures de Lapinot. Ma non gli basta, costruisce una seconda serie partendo dall’assenza di quel personaggio: Les Formidables Aventures Sans Lapinot. Pubblica questi libri (in tutto 14, 10 con e 4 senza) nel più tradizionale dei formati francesi, l’albo cartonato a colori di 48 pagine, per uno degli editori più importanti, Dargaud.
Menu si scaglia in più occasioni contro l’albo a fumetti cartonato di 48 pagine a colori. Lo chiama 48CC e dice che è la tomba del fumetto. Trondheim, in quel formato, riesce a viverci, a vivere con i proventi derivatigli dalla vendita degli albi e a coinvolgere, in un’occasione, Menu nella realizzazione di un 48CC, un albo di quella magistrale costruzione di racconto e di tempo che si chiama Donjon.
È un dramma: due autori, che si amano alla follia e che, ciò nonostante, vivono agli antipodi, si devono confrontare su un tema ideologico e culturale. A un certo punto Trondheim, che ha pulsioni decisamente meno autodistruttive di quelle di Menu, cede. Sta costruendo un albo bellissimo nel formato 48CC e ha chiaro in mente il titolo e il tema: l’albo si chiama La Vie Comme Elle Vient ed entro la fine del volume un personaggio morirà. Sta procedendo nel racconto come sempre: lo intreccia, lo disfa, inanella eventi distanti, costruisce relazioni e rotture e, facendolo, tocca vette esilaranti. Mentre sta disegnando la dodicesima pagina, Trondheim capisce quale personaggio morirà.
I lettori dovranno arrivare fino in fondo al volume per piangere la scomparsa di Lapinot.
Rischiare la vita
Quando pensiamo ai fumettisti, di solito, ce li figuriamo sedentari e tranquilli, lontanissimi dal pericolo. Gente che trascorre le proprie giornate china su un tavolo da disegno a raccontare meraviglie, respirando l’aria della bolla di noia in cui vive e scoreggia.
Ci vuole un gigante depresso, come il sublime Fred, per spiegarci quanto stiamo sbagliando. Ascoltiamolo un attimo:
«Questa idea del pericolo, del dubbio, è parte integrante della creazione. C’è un angelo divertente che viene a bisbigliarmi nell’orecchio l’idea o l’immagine che scatenerà tutto. Come contropartita, so che, a ogni vignetta, io rischio la vita. C’è una tale concentrazione, una tale energia, che non posso rilassarmi. Siamo proprio come gli artisti del circo che fanno il loro numero, rischiando la vita. Oso immaginare che i grandi autori che amo – Charles Dickens, Jules Renard, Robert Stevenson o Edgar Allan Poe – sognavano tutti di essere appesi a trapezi immaginari.»
Trondheim, completamente indifferente alla coerenza narrativa, tredici anni dopo averlo ammazzato, riporta Lapinot sulle pagine di un racconto bellissimo.
Lo pubblica in forma di albo cartonato, da 48 pagine a colori, specificando chiaramente che si tratta del primo volume di una serie. Ma il libro viola il formato tipico dell’albo della BD francese: è quadrato e non può essere posto sulla mensola su cui giacciono inermi i volumi delle altre serie; sborda da tutte le parti.
Per dare un chiaro segnale a Jean Christophe Menu, Trondheim scrive, a caratteri grandi sulla quarta di copertina, «48CC».
Per dare un segnale ai suoi lettori, apre il racconto con un dialogo tra Lapinot e Richard.
I due sono seduti su una panchina e il coniglio chiede: «Cosa faresti se io morissi?»
Il gatto, senza esitare, risponde: «Andrei in un universo parallelo in cui sei ancora vivo e ti riporterei qui.»
«Ma, così, le persone di quell’universo sarebbero tristissime.»
«Che cosa me ne frega di quella gente.