“Che Natale sarebbe senza il presepe?”, dice un amico che già quando era un moccioso faceva da assistente al nonno, che allestiva presepi così grandi da dover impegnare allo scopo quasi un un’intera stanza. “Quando il caro vecchietto ci lasciò il suo impegno venne assunto da mio padre, che è ancora vivo, ma poi, stanco e malandato, ha affidato l’incarico a me. Si limita a fornirmi suggerimenti, e guai se compio un errore di prospettiva. E ha ragione: la prospettiva è importante. Se manca, il presepe è piatto”.
Per fare un bel presepe occorre talento, arte, immaginazione, esperienza, pazienza. Come ne hanno quelli che in san Gregorio Armeno, a Napoli, via nota in tutto il mondo, realizzano grotte e statuine bellissime e così ben curate da sembrare …viventi. Sotto il Vesuvio la passione del presepe è sempre stata diffusa: nel secolo XVII, molto prolifico da questo punto di vista, persino il re Carlo III, nelle ore di riposo, che dovevano essere tante, tirava su capanne e grotte, alberi e pendii, mentre la consorte allestiva con maestria gli abiti di madonne, lavandaie, magi e via dicendo.
Nell’affollato Museo del presepe di Brembo di Dalmine (Bergamo), accanto a scenografie provenienti da tutto il mondo, sono allineate anche quelle più esemplari provenienti dalla Campania e dalla Puglia. In ogni casa in Italia e altrove si fabbricava, e si continua a farlo, il presepe: aristocratici e borghesi non si sottraevano al manufatto. E il popolo neppure. Certo i proletari non disponevano dei mezzi dei signori, ma per quanto riguarda i risultati facevano la loro esaltante figura. Non mancavano, e non mancano, i laboratori, visitati da indigeni e turisti, ammirati dalle scenografie suggestive.
Elena Sica riferisce che nel primo Ottocento la viaggiatrice tedesca Friedericke Brun (nei suoi viaggi conobbe e strinse amicizia con Goethe, Schiller, Madame de Stael, Herder, Schlegel), dopo aver contemplato una delle tante rappresentazioni plastiche, così si esprimeva: “Attraverso un paesaggio boscoso e roccioso, attraverso ruscelli e profonde valli si snoda il pomposo corteo dei re magi, ricco di doni orientali; sono accompagnati dalla servitù su dei bei cavalli riccamente bardati e cammelli, dromedari e asini carichi di oggetti preziosi”.
Nel presepe partenopeo, oltre alle figure canoniche, come il guardastelle, il dormiente, i pastori che portano a spasso il loro gregge, il ciabattino, la lavandaia, il pescatore (l’acqua è uno degli componenti-simboli del presepe, come la fiammella sotto il treppiede; la luce che illumina antri e sentieri), compaiono personaggi della vita quotidiana, come la casalinga che cala dal balcone il cestino legato a una corda per prendere la spesa fatta dal marito; il venditore di maccheroni; esponenti politici in vista che si esibiscono nei cosiddetti salotti televisivi. E il più amabile Pulcinella, maschera storica napoletana che fu interpretata in teatro anche da Eduardo De Filippo.
Nel presepe lombardo sino a qualche tempo fa erano assenti le figure del pescivendolo e del pizzaiolo: sono comparsi con l’immigrazione dal Sud, e soprattutto il secondo è diventato assiduo nel ’29, quando nel ristorante “Santa Lucia”, in via Agnello, frequentato da Eduardo, Totò, Wanda Osiris, Gabriele d’Annunzio…, si accese il forno per fare la prima pizza, che, detto per inciso, non riportò subito il successo degli anni successivi: i primi divoratori furono i poliziotti meridionali della questura, che allora era in piazza San Fedele, a due passi dal locale che la serviva.
In passato, nei presepi non c’erano ortolani con sacchetti di frutta sulle spalle o con esposizione di contenitori colmi di pere e arance. Nei presepi milanesi, ben piazzati gli ambulanti, ma nella realtà le voci degli arrotini, degli impagliatori di sedie, degli ombrellai, degli spazzacamini… si sono spente: fanno parte della storia. E della storia fa parte il fondale fatto con il foglio di carta azzurra, poi sostituito da paesaggi dipinti.
Nel presepe leccese troviamo anche l’albero della cuccagna, che s’innalzava davvero nelle piazze per la festa del patrono o per le altre ricorrenze; il ficodindia; il banco del venditore di angurie, i suonatori, che portavano le serenate. E come sempre le code di pastori che attraversando mulattiere, viottoli erbosi o innevati con contadini al lavoro portano ogni sorta di doni.
Il presepe popolare, pur non presentando lo sfarzo di quelli patrizi per i pochi mezzi a disposizione, si serviva di ciò che si poteva recuperare, ma il risultato era comunque rilevante. Oggi per i presepisti c’è tutto e tante ricostruzioni della Natività raggiungono livelli d’arte. Come nel Settecento, tra l’altro ricco di statuine ottimamente sagomate, fortemente espressive. Il presepe è magia, favola, incanto, racconto. Il presepe reca gioia, serenità. Tutto questo, a mio parere, manca nei presepi in cui si fa nascere il Bambinello in un trullo, in un appartamento, nell’androne di uno stabile. Non c’è l’atmosfera tradizionale, il fascino, il calore.
Ci sono tanti modi di fare il presepe. C’è chi lo fa con l‘argilla immersa in un secchio d’acqua e chi con il sughero. Mimino Miccoli, uno scultore di grande talento di Statte, in provincia di Taranto, ex dipendente dell’Arsenale della bimare, utilizza ogni materiale: dadi, bulloni, viti con la testa a brugola o a croce, ganci, piastre di giunzione, tiranti, moschettoni, filo di ferro, molle…, ottenendo opere d’arte vere e proprie, che definisce microarcheologia industriale. Fertile, inesauribile, la sua creatività. Ecco uno dei suoi presepi. L’ho visto, ne sono rimasto colpito e gli ho rivolto domande soprattutto sui materiali impiegati.
“Quello che hai visto è in garza metallica che avvolge cavi coassiali per trasportare le varie frequenze di onde radio. La base, una scheda elettronica, mentre il resto si compone di varie cianfrusaglie con parti di selettori di centralizzate”. Con la stessa ferramenta, Miccoli esegue non soltanto ricostruzioni della Natività, che regala agli amici o alle associazioni, ultima la Società operaia di mutuo soccorso; ma anche don Chisciotte, a volte con il suo Sancho Panza al seguito. Ed è così efficace, il suo personaggio, sia pure nell’interpretazione sintetica dell’artista, che l’osservatore se lo immagina, il protagonista del libro di Miguel de Cervantes Saavedra e le sue imprese dedicate a una giovane contadina, Aldonza Lorenzo, trasformata nella sua fantasia in una nobildonna, Dulcinea del Toboso. Miccoli è artisticamente attratto dalla figura di don Chisciotte, e lo rende in tutti i suoi atteggiamenti di cavaliere errante. L’ha studiata e ristudiata; l’ha meditata.
Chiedendo scusa per la digressione, i presepi e tutti gli altri manufatti che Miccoli realizza con i soliti elementi saggiamente assemblati, ribadisco, sono autentici capolavori molto apprezzati, anche nelle mostre. Lo scultore di Statte (città di gravine, dolmen e con la bella facciata del municipio con l’orologio in alto) meriterebbe che un critico consacrato si scomodasse per valorizzare maggiormente il suo talento. Ebbi modo di conoscere Mimino alla Masseria Pilano di Crispiano (anche questa in provincia di Taranto: un quarto d’ora appena in macchina), in una interessantissima manifestazione in cui c’erano anche figuranti vestiti da briganti con tanto di fucile ad armacollo e donne affaccendate in lavori di tessitura.
Mimino Miccoli esponeva su un banco i suoi don Chisciotte in filo speciale, colto nel suo portamento severo e baldanzoso, con lancia e cappello a mo’ di quello di solito usato dai preti. Michele Annese, dinamico e intelligente direttore della Biblioteca “Carlo Natale” e segretario generale della Comunità Montana, mi si avvicinò, mentre ascoltavo il sottofondo di un tagliaerba e alcuni visitatori tarantini che ricordavano i tempi della guerra, quando molti loro concittadini si rifugiavano a Crispiano per sfuggire alle bombe, mi si avvicinò per esprimere il suo desiderio di farmi conoscere un artista. Era appunto Mimino Miccoli, capelli bianchi, sorridente, cortese, affabile, felice di vedermi interessato al suo “eroe”. Non mi parlò dei presepi, che tra l’altro vantano una buona espansione nello spazio. Ora li contemplo e ne resto estasiato.