Emilio Isgrò pubblica un corposo libro di poesie, Quel che resta di Dio (Guanda, MI, 2019), che vanno dal 1981 al 2019 (anche se un’avvertenza ci informa che “esse non sono rimaste immutate e immutabili nel tempo”, a volte – wildeanamente – solo per il cambio di una virgola). Chi ha seguito Isgrò dagli esordi (1956) e poi dal 1963, quando pubblicò sul “Menabò 6” un mannello di versi (che, riletti oggi, contenevano già quello spirito irridente e dissacratorio che lo caratterizza), sa che egli ha scritto sempre versi e che è nella sua ricerca sulla “poesia visiva” che s’innesta il suo furore cancellatorio, quello su cui si fonda la sua notorietà nel campo dell’arte visiva (si veda, più ampiamente: Emilio Isgrò cancellatore seriale, in www.paeseitaliapress.it del 16.2.2018).
Concentrando l’attenzione su quest’ultimo volume, si nota innanzitutto che esso consta di ben nove sezioni, sempre dedicate a “ciò che resta”: della “carne”, del “dopoguerra”, degli “Isgrò”, dell’”amore”, del “Mediterraneo”, ecc. E fin da queste partizioni si rileva il suo spirito irrisorio, che discende direttamente dal filone Dada dell’arte moderna, dato che anche le stesse “cancellature” della sua arte visiva non fanno che risaltare, mettere in evidenza, l’essenziale. Ma cosa resta di Dio? Ovviamente Isgrò non va mai preso alla lettera (“… il vizio di pretendere / che le parole siano tutte vere”, p. 14). Si veda questo excursus: “Io credo in Dio ma non l’ho mai chiamato / per nome. L’ho chiamato amore / acqua, gloria; e qualche volta storia” (p. 15); “io credo in Dio / padre onnipotente / creatore del cielo / e della terra, / oltre che delle cimici. / Ma credo a giorni alterni, a ore intermittenti” (p. 26); oppure “l’aver cercato Dio in una virgola / trovando al posto suo un bel bicchiere / colmo di droghe, menta e liquirizia” (p. 124); ma concludendo infine d’averlo trovato in quel “seme d’arancia (si sa: al suo paese natio si trova la monumentale scultura omonima) che è Dio” (p. 132).
Lo stesso modo di procedere si ha nelle varie sezioni. Nella prima, quella della “carne”, viene detto che “sono carni cattoliche, carni di Santa Rita / quelle che si macellano in Italia. / Sono carni diaboliche, carni di Sant’Antonio / quelle che si distruggono in Sicilia” (p. 21); per concludere “il mio spirito è il solo che certifica / la carne sana: così frollata e tenera / che non si scioglie in una bocca umana / e se la mangia Dio” (p. 22). Nella sezione del “dopoguerra” si incontra un mero divertissement sui Fucilati di Piazzale Loreto. Mentre nella sezione dell’”arte” il testo Dubbio di Lorenzo il Magnifico (p. 47) si deve intendere come una metafora sulla mercificazione dell’arte contemporanea. Ma c’è anche un’orgogliosa riaffermazione di sé: “Io devo essere, non dimostrare” (p. 49).
Peraltro, come ci si poteva aspettare, nella sezione degli “Isgrò” l’autore si sofferma sulle memorie familiari e pertanto lo spirito ironico/dissacratorio si affievolisce (ci sono versi sulla madre, sul fratello Bruno scomparso da giovane). Ma poi si assiste a un tripudio di fuochi artificiali attraverso il lessico: “bastardi in apnea”, “figli di baldracca”, “mercenari e palombari”, “frangiflutti”, “gabbiani senza ali”, “frutti di un mare nero”(p. 76). Così nella sezione dell’”amore”ci sono reminiscenze di amori, a volte lontani nel tempo, a volte addirittura richiamanti quello “cortese” della scuola siciliana, come per i versi dedicati alla moglie Scilla (p. 92).
Nella sezione finale, la nona sul “Mediterraneo”, c’è un testo in cui i filosofi classici (Socrate, Platone, Aristotele) e quelli arabi (Averroé e Maimonide) sono paragonati a “pesci” e quindi alle acciughe che, come “sanguisughe”, ti lavorano tra i denti (p. 129). Ma ci sono anche due testi brevi di intensa liricità (e graficamente in maiuscolo), come quelli su Una tomba siciliana (“Profumano di notte i gelsomini: / per questo tu li senti anche nel buio. / E la tua notte non sarà più notte / e la tua carne non sarà più stanca”) e su quella, a Biserta, di Abdel Rahim Zitouni (p. 131), un vero epitaffio ‘classico’. Per concludere infine, con spirito non più irridente ma da credente, che “niente è più forte del possente giorno / che la vita ci porta come dono” (p. 127).
Concludiamo con qualche osservazione sull’aspetto tecnico, della versificazione (che non attrae certo il lettore comune). Nel testo Tresca infernale, a p. 118, ci sono questi versi: “Voglio scrivere questi versi / al modo zoppicante e incerto / di quelli che non sanno scrivere / ma hanno sentimento”. Ebbene, apparentemente tutti (o quasi) i testi del volume sono scritti in forma chiusa. Si hanno così sonetti senza o con la coda (14 + 2 versi), terzine, quartine, distici, in prevalenza. Con metri che vanno dall’endecasillabo, al settenario, al novenario o di misura più breve (6, 5, 4 e 3 sillabe). Ma sono rari i testi per così dire “perfetti”. A volte ci sono iper/ipòmetri, a volte le strofe eccedono la loro misura naturale (es: quartina di cinque versi), oppure ricorrono altre anomalie. Così è per quanto riguarda il presunto rigore ortofonico, che “struttura” il testo. Spessissimo le rime si risolvono in assonanze e consonanze o mancano del tutto. Comunque, come esempio di testo compiuto si può citare Parlatorio (p. 91), un sonetto (con rime ABAB, ABAB, CDC, DCD). Un verso singolare è quello formato da otto monosillabi e un trisillabo (il 13° del sonetto caudato La canzone del merlo, p. 117). Si può affermare perciò che, anche sotto l’aspetto metrico-prosodico, Isgrò manipola le sue composizioni “alla maniera di”, in conformità peraltro alla sua poetica dell’irregolarità novecentesca.
SERGIO SPADARO
EMILIO ISGRO’, Quel che resta di Dio, Guanda, MI, 2019, € 14,00.