LOST IN TRANSLATION”: “PERDERSI NELLA TRADUZIONE” DEI SENTIMENTI PER RITROVARE NUOVE CONSAPEVOLEZZE

Tokyo, tra luci, ombre, folle, grovigli intensi, dà vita alla seconda grande opera di Sofia Coppola, dal nome “Lostin Translation”, pellicola del 2003, evidenziando così l’incontro perfetto di solitudini annebbiate dalla moltitudine, celate dal caos, ma pur sempre visibili all’occhio dell’ancora umano.

Tokyo, la Capitale d’Oriente, il connubio perfetto tra tradizione ed ultra-modernismo, la frenesia degli attimi e dei movimenti robotici: gente immersa in un fluire cosmico, tecnologico e dettagliato, a tratti psichedelico, colorato da luci intense nate con l’intento di brillare, laddove il buio delle anime regna, oltre il confine di un becero capitalismo al sapore di tutto e niente. La megalopoli affollata, densa, contraddittoria: viva nei gesti, spenta nell’animo. Terreno fertile per il seme della solitudine, dell’incomunicabilità, della non percezione delle vite, degli istinti, dei voleri, dei desideri sempre mancati.

Sarà  proprio Tokyo, tra luci, ombre, folle, grovigli intensi, a darvita alla seconda grande opera di Sofia Coppola, dal nome “Lostin Translation”, pellicola del 2003, evidenziando così l’incontro perfetto di solitudini annebbiate dalla moltitudine, celate dal caos, ma pur sempre visibili all’occhio dell’ancora umano. Proprio la città nipponica farà da sfondo al senso di vuoto e smarrimento provato dai due protagonisti, Bob Harris (interpretato da BillMurray) e Charlotte (interpretata da una giovanissima Scarlett Johansson, all’epoca diciottenne).

I due personaggi, grazie al tratto realistico e vivo della sceneggiatura, al contributo della fotografia che offre una resa originale e volta al realismo, ed alla sana improvvisazione di molte scene, mostrano al pubblico il senso dell’introspezione, dell’analisi profonda, pienamente esistenzialista, basata su una traccia filosofica che aiuta e stimola la riflessione.

La trama

Bob è un attore in declino, un uomo ormai maturo, consapevole della propria discesa artistica, del suo essere rilegato a ruoli marginali, non più di primo interesse, che egli stesso accetta per poter vivere e mantener in vita almeno il ricordo di un’aura passata. Soggiorna a Tokyo per sponsorizzare un noto marchio di whisky, vestendo quindi un ruolo che non appaga il suo essere, creando intorno a sé solo un principio di insoddisfazione perenne. Da tempo affoga dubbi e crisi esistenziali nell’alcool, unico chiaro principio di resa e rassegnazione.

Charlotte è invece una giovane sposa neolaureata; non sa esattamente cosa fare, se volgere uno sguardo fermo ed attento per il domani. Decide di accompagnare il marito, fotografo lampante e in ascesa, in Giappone per un tour fotografico, soggiornando così a Tokyo. Trascorre molto tempo in solitudine, riflettendo sul senso della propria presenza in una terra così lontana, in termini di distanze e cultura, capace di isolare ancor di più il suo animo inquieto ed irrisolto. La non presenza del compagno, il suo essere così catapultato su singoli interessi lavorativi, isolando infine la moglie, porteranno Charlotte a sperimentare un rapporto con sé stessa volto alla conoscenza propria, un’analisi che spesso causa gran sconvolgimento, abbraccio di una crisi profonda, ma pur sempre necessaria ai fini di una vera e propria risoluzione.

I due protagonisti, Bob e Charlotte,  percorrendo simili tratti, fatti di vuoto e solitudine, ricreano l’atmosfera perfetta del singolo rifugio nell’albergo ove entrambi soggiornano da qualche giorno, il Park Hyatt di Tokyo, luogo di forte ispirazione per la regista Coppola perché da lei stessa conosciuto e vissuto, crocevia di varie culture e quindi scenografia perfetta in grado di scandire riprese che andranno ad evidenziare il susseguirsi di una folla sovrastante, tormentando i soggetti coinvolti.

L’insonnia perenne e puntuale, la vacuità notturna, l’indicibile senso di smarrimento e lontananza, porteranno all’incontro di due anime che, seppur svuotate dalla mancata quiete, decideranno involontariamente di unirsi nella reciprocità dell’isolamento. Il bar dell’hotel, sempre aperto, diverrà sede di lunghissimi e profondi discorsi, nati per abbattere il muro di costrizione all’interno del quale sia Charlotte che Bob si ritrovano a dover scavalcare e costruito da mattoni quali: infelicità, repressione, insoddisfazione, incertezza e paura del futuro.

Pur vivendo età differenti e lontane, pur non avendo vite comuni, allo stesso modo essi vivono un disagio causato dalla precarietà dell’anima che vaga assentandosi tra la folla, un’anima sminuita perchè logorata dalle intemperie di un consumismo dilagante, dall’incomunicabilità disarmante. Essi si riconoscono, senza deciderlo, semplicemente perché sono le anime a parlare, ancora vive, senzienti.

Quando John, marito di Charlotte, parte recandosi fuori città per qualche giorno, (ciò è dovuto ad impegni di lavoro), i due rimangono sempre di più insieme, imparando a conoscersi e riconoscersi anche nelle diversità, placando il vuoto di giornate solitarie, incomprensibili e malinconiche: usciranno, conosceranno nuove persone, canteranno e balleranno( iconica la scena del karaoke, dove Bill Murray , con un grado di naturalezza dato dal suo essere spontaneo, interpreterà il celebre brano “More Than This “di Roxy Music.)

Persi in un caleidoscopio di luci notturne, sfavillanti tra le strade affollate di una Tokyo sempre in up nonostante i propri down, Bob e Charlotte familiarizzano con le loro differenze, le trasposizioni che devono manifestare per poter sopravvivere, reggendo il caos e ritrovando una condivisa stabilità.

Charlotte sembra aver trovato in Bob una sorta di consigliere personale, un uomo sempre a pronto a distribuire evasioni e consigli, rassicurazioni ed obiettività, lontano dalla mediocrità dei mezzi termini, compagno d’un tempo indefinito. La giovane deciderà successivamente di trascorrere qualche giorno a Kyoto, mentre Bob approfitterà della sua assenza per partecipare  ad uno show televisivo che lo vedrà ospite, impattandosi ancora una volta col senso della non comunicazione, dell’isolamento ovattato, della ricerca di pienezza sempre lontana ed inafferrabile, in un luogo che condiziona negativamente il suo “essere stato”, in cambio del suo “non esser più “qualcuno. Una maschera che, a varie riprese,cadendo, svela l’identità di una persona stanca del personaggio.

Passerà la notte con una cantante del nightclub da lui stresso frequentato, e non appena Charlotte verrà a conoscenza dell’accaduto, ciò desterà in lei pieno sgomento ed irritazione.

Pur non essendo mai stato pronunciato un interesse reciproco, né tanto meno un coinvolgimento fisico ed amoroso, si avverte per l’intera durata del film un legame platonico, un’unione che nasce dalla comunione di anime, solitudini e parole fatte di notti e riflessioni: ciò desterà gelosia nell’impulsiva Charlotte, evidenziando una realtà senza filtri, un’impossibilità nel cambiare le sorti future d’entrambi, una responsabilità da prendere a pieno titolo, una vicinanza alla fuga più vicina di quanto potesse non sperare.

Lo stesso giorno Bob deciderà infatti di partire, ritornando così a casa, da una moglie assopita da una vita fittizia, da un matrimonio che egli stesso considera poco radicato. Il saluto è intriso di malinconia e tristezza, una nota al’attimo infelice, ma in grado di aprire le danze ad una vicina speranza.

Una volta salito sul proprio taxi, Bob scorge la presenza di Charlotte tra la folla giapponese, una presenza quasi assente, singolare, fresca ma turbata, dall’andamento sospeso e fluttuante, decide così di scendere, e precipitandosi verso di lei la saluta un’ultima volta, regalandoci un attimo di dolcezza e melanconia, sussurrando delle parole ignote che, pur non conoscendo, amiamo immaginare perché vestite dall’importanza di un bacio, prima di ritornare a casa.

Un finale che può sorprendere, fin troppo realista e lontano dall’idealizzazione di un sentimento consumato o continuato grazie al proseguire di una finta risoluzione. La consapevolezza, il viaggio attraverso la maturità e la razionalità, la conoscenza di sé e dell’altro, il contatto fisico mai avvenuto, porta i protagonisti verso l’evoluzione di un percorso nuovo. Rinunciare per allontanare il rischio e la fatalità. Il carattere precario, a tratti finito, manifestato dalla corrente esistenzialista, sembra essere la cornice perfetta all’interno della quale figurare due anime volte alla nota accettazione.

“Lost in Translation “ fornisce la chiave di lettura dell’impercettibile ed incomunicabile senso di nostalgia di sé, perso e rintracciato, ed ancora perso tra l’irrisolutezza di una vita frenetica ed inappagabile.

I temi principali sono la ricerca della persona, dell’identità ancor prima d’essere inserita in una società plastica, non armonica. Ricondursi all’anima, al volere prima dell’essere, rifiutando la banalità, l’involucro schematico di teorie progettuali volte all’abbattimento dell’essere umano. Apprezzare l’intimità dei dettagli, del dialogo e del monologo, della pura enfasi che nasce dalla profondità della notte. Riconoscere l’inquietudine e capire da dove sorge, abbattere il muro della solitudine, ed avvicendarsi nella routine dell’impatto caotico.

La traduzione del titolo che in italiano riduce a zero il significato del film, ovvero “L’amore tradotto”, manipola negativamente il senso ed il significato originale della pellicola.

“Lost in translation”, cioè, “Persi nella Traduzione”, sottolinea invece il profondo senso di smarrimento, di perdizione, dell’impossibilità vigente di tradurre sentimenti, pensieri, stati d’animo, del loro sconvolgimento nel momento in cui nasce il bisogno di donarli alla realtà, eclissando quindi ogni naturalezza primaria. Le parole, infatti, così come i pensieri, perdono gran parte del loro significato, nel momento in cui entrano in contatto con la manifestazione stessa della pronuncia.

Non a caso Tokyo, rappresenta egregiamente il senso di perdizione che Bob e Charlotte avvertono singolarmente.

Persi in vite instabili, tra rumori assordanti, matrimoni solitari, e lingua indecifrabile; tutto ciò non farà altro che unirsi alla mancata traduzione dell’intimità della parola. Un film portatore di significati notevoli, carichi di emotività ed introspezione evolutiva, necessita dell’accompagnamento di musica riflessiva, non a caso introdotta nella pellicola. Citando alcuni esempi: “Alone in Tokyo”– Air, “Just like honey”– The Jesus and Mary Chain, “Sometimes”– My bloody Valentine, “Too Young”– Phoenix.

La condivisione degli attimi, dell’intensità del tempo scandita da musiche, scenografia, dialoghi e foto, regala al pubblico la rappresentazione di una dolcezza intima, inquadrando fragilità umane e nuovi punti di partenza.

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