«Te gryk’e spartavet, në fushë të kuqë, ra shqiponja ç’u sul të huajvet turq. Vanë te mali punëtorët për festë e i vranë, bujarët mbi shkëmb për gjah e i panë. Në të parën e majit dhe gurët pinë gjak. Djem ranë e pleq në radhë të parë te Gryka e Spartavet plot me të vrarë!» |
(Alla bocca delle ginestre, sul campo rosso, cadde l’aquila che attaccò gli stranieri i turchi. I lavoratori vennero sulla montagna per una festa e li uccisero, i contadini sulla roccia per vivere e li videro. Il primo maggio anche le pietre bevvero sangue. I ragazzi caddero e i vecchi in primo luogo nella Portella della Ginestra piena di morti!, Një maj 1947 di Giuseppe Schirò Di Modica, conosciuto con lo preudonimo Sdruballi.) |
Quando si parla di morti, di solito non faccio caso al colore politico, se poi sono i morti di una “strage” mi è ancor più difficile “catalogare” con definizione se non solo distinguendo le VITTIME dagli ASSASSINI.
Era il 1 maggio 1947 e si tornava a celebrare la “festa del lavoro” nella luce speranzosa del secondo dopoguerra.
Circa duemila i lavoratori della zona di Piana degli Albanesi, e altri da San Giuseppe Jato e San Cipirello, molti dei quali agricoltori, si erano riuniti a Portella della Ginestra, una località montana del comune di Piana degli Albanesi, nella vallata circoscritta dai monti Kumeta e Maja e Pelavet, a pochi km da Palermo, per manifestare contro il latifondismo favore dell’occupazione delle terre incolte e festeggiare la recente vittoria del Blocco del Popolo, l’alleanza tra i socialisti di Nenni e i comunisti di Togliatti alle elezioni dell’assemblea regionale siciliana, svoltesi il 20 aprile di quell’anno e nelle quali la coalizione PSI-PCI aveva conquistato 29 rappresentanti su 90 (con il 32% circa dei voti) contro i 21 della DC (crollata al 20% circa).
Era, appunto, il dopoguerra e le condizioni dei lavoratori erano misere, la gente aveva “fame” sia in senso fisico che in senso morale di “lavoro” e la speranza viaggiava veloce nell’idea di una prospera “ricostruzione” che, ahinoi, in Sicilia, terra di grandi ricchezze e opportunità, ma priva di un reale interesse socio-politico da parte dello Stato, ben poco avrebbe portato da lì agli anni a venire.
La strage venne organizzata il giorno prima a seguito di una lettera ricevuta da Salvatore Giuliano e da lui subito bruciata. Questi, insieme ai suoi uomini, si recarono quindi sul promontorio dal quale si dominava la vallata; durante il tragitto sequestrarono due cacciatori che avevano incrociato per caso per evitare che potessero raccontare qualcosa. Verso le 10 del mattino, un calzolaio di San Giuseppe Jato diede inizio al comizio in sostituzione di Girolamo Li Causi, un deputato del Pci, quando improvvisamente dal monte Pelavet partirono sulla folla in festa numerose raffiche di mitra, che si protrassero per circa un quarto d’ora e lasciarono sul terreno undici morti (otto adulti e tre bambini) e ventisette feriti, di cui alcuni morirono in seguito per le ferite riportate.
I primi colpi erano stati inizialmente scambiati per dei mortaretti, ma anche quando ci si rese conto della loro reale natura, la mancanza di ripari impedì a molti di mettersi in salvo.
Ad oggi restano oscure le trame ordite per la strage di Portella della Ginestra, oscure perché nella baraonda delle responsabilità, chi aveva il potere e l’opportunità di dare luce alla tragica vicenda, si accontentò di rimbalzare le responsabilità tra un colore politico ed un altro.
Di concreto e reale ci restano i nomi dei morti, che voglio ricordare, di quel giorno nefasto.
Margherita Clesceri (37 anni)
Giorgio Cusenza (42 anni)
Giovanni Megna (18 anni)
Francesco Vicari (22 anni)
Vito Allotta (19 anni)
Castrense Intravaia (29 anni)
Filippo Di Salvo (48 anni)
Serafino Lascari (14 anni)
Giuseppe Di Maggio (12 anni)
Giovanni Grifò (12 anni)
Vincenzina La Fata (8 anni)
La morte non ha colore e il sangue delle vittime sa di violenza ovunque e comunque esso sia versato. E il sangue che scorre tra le pietre fino al mare della mia bella e amata Sicilia non deve essere dimenticato.