“Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale: quella bellezza molle a un tempo e maestosa, che brilla nel sangue lombardo. La sua andatura era affaticata, ma non cascante; gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d’averne sparse tante; c’era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava un’anima tutta consapevole e presente a sentirlo. Ma non era il solo suo aspetto che, tra tante miserie, la indicasse così particolarmente alla pietà, e ravvivasse per lei quel sentimento ormai stracco e ammortito ne’ cuori. Portava essa in collo una bambina di forse nov’anni, morta; ma tutta ben accomodata, co’ capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l’avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio. Né la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere sur un braccio, col petto appoggiato al petto, come se fosse stata viva; se non che una manina bianca a guisa di cera spenzolava da una parte, con una certa inanimata gravezza, e il capo posava sull’omero della madre, ché, se anche la somiglianza de’ volti non n’avesse fatto fede, l’avrebbe detto chiaramente quello de’ due ch’ esprimeva ancora un sentimento. […]. La madre, data a questa un bacio in fronte, la mise [sul carro] come sur un letto, ce l’accomodò, le stese sopra un panno bianco, e disse l’ultime parole: “addio Cecilia! Riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme. Prega intanto per noi; ch’io pregherò per te e per gli altri.” Poi voltatasi di nuovo al monatto, “voi”, disse, “passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me, e non me sola.”
Così detto, rientrò in casa, e, un momento dopo, s’affacciò alla finestra, tenendo in collo un’altra bambina più piccola, viva, ma coi segni della morte in volto. Stette a contemplare quelle così indegne esequie della prima, finché il carro non si mosse, finché lo poté vedere; poi disparve. E che altro poté fare, se non posar sul letto l’unica che le rimaneva, e mettersele accanto per morire insieme? Come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in boccia, al passar della falce che pareggia tutte l’erbe del prato’.
È questo uno dei passi più liricamente commoventi de I Promessi Sposi- scrive Giuseppe Lalli, esperto- quel libro da tenere a fianco sul comodino del letto (livre de chevet), da leggere e rileggere, da gustare, da assimilare quale miniera inesauribile di arte e di saggezza, quell’opera immortale scritta per la consolazione di generazioni di Italiani da Alessandro Manzoni (Milano 1785 – Ivi, 1873), grande anima cristiana prima ancora che grande scrittore. Noto come La madre di Cecilia, il brano lo s’incontra in uno dei capitoli dedicati alla peste che nel 1630 funestò la città di Milano e il suo territorio. Ci troviamo di fronte ad una di quelle pagine del celebre romanzo che non si possono leggere senza che le palpebre non si inumidiscano e che il cuore non si stringa. In questo brano, come in altri del romanzo, la poesia veste i panni della storia. La descrizione quasi ci paralizza, tanto è toccante: il realismo efficacissimo delle immagini si accompagna ad un sentimento che avvolge madre e figlioletta in un unico abbraccio. In queste righe poesia e pietà si danno la mano, il dramma umano del dolore e la luminosa speranza cristiana della risurrezione si invocano ad ogni parola, e la compassione si fa silenziosa preghiera che sale in alto. Va in scena il dolore, placato tuttavia da una consapevolezza dignitosa, quella che alla povera donna dà la sua fede cristiana, che fa sì che la sua anima, ancorché affranta, guardi oltre la materia, e le assicuri, pur tra lo strazio, che il male alla fine non vincerà. La stessa evocata bellezza della donna («quella bellezza molle a un tempo e maestosa, che brilla nel sangue lombardo»), inficiata dal dolore ma non distrutta, non è, nella penna del grande scrittore, solo magistrale espressione di stile, ma anche segno tangibile che la morte non avrà l’ultima parola.
In scene come questa, che al Manzoni fu ispirata dalla lettura di un episodio realmente accaduto e riportato nella cronaca che dell’immane flagello fece il cardinale Federico Borromeo (Milano 1564-Ivi, 1631), la sventura umana reclama la croce di Cristo, e la madre di Cecilia ci appare la madre di tutti i dolori, la Vergine addolorata che ci ricorda che, finché camminiamo sulla terra, le gioie piccole e grandi hanno sempre le radici a forma di croce. Romanzo storico per eccellenza, il racconto di Manzoni è ambientato negli anni in cui l’Europa e l’Italia erano funestate da una terribile epidemia, nota, da uno dei suoi sintomi più vistosi, come “peste bubbonica”. Si trattò di uno dei frutti più nefasti di quel conflitto continentale che fu poi chiamato “Guerra dei Trent’anni” (1618-1648), che vide in campo grandi eserciti, che seminarono nelle contrade d’Europa morte e desolazione. Furono gli effetti collaterali di questa guerra, nel milanese, la causa principale della carestia, della rivolta del pane, della calata dei Lanzichenecchi e, da ultimo, della peste, che, entrata con le bande alemanne, non si fermò nel territorio lombardo, ma spopolò, con inarrestabile contagio, in gran parte dell’Italia settentrionale, mietendo centinaia di migliaia di vittime.
I capitoli dedicati alla peste- sottolinea l’autore dell’articolo- sono esemplari di quel mirabile intreccio di avvenimenti realmente accaduti e trama romanzesca che fanno de I Promessi Sposi un capolavoro unico ed irripetibile. In questi capitoli il rigore storiografico non è mai disgiunto dal giudizio morale: per Manzoni la storia spiega ma non giustifica.
La descrizione che l’autore fa della grande calamità nel capoluogo lombardo è dettagliata, e impietosa nei confronti degli errori e delle colpe degli uomini. Egli mostra come all’inizio il diffondersi del morbo fu anche la conseguenza dolorosa sia di scelte sbagliate da parte dei responsabili delle pubbliche istituzioni, sia dei pregiudizi che, insieme al panico e al delirio, presto si diffusero in mezzo al popolo. Dapprima il male lo si volle negare, e i pochissimi medici che ebbero il coraggio della verità si videro additati al pubblico ludibrio; poi, di fronte all’evidenza di una mortalità sempre più diffusa, esso venne attribuito alle arti malefiche di streghe, al commercio col demonio, all’opera di una congiura da parte di criminali che spargevano dappertutto unguenti mortali. «Ed era in vece il povero senno umano – sentenzia amaramente il Manzoni – che cozzava co’ fantasmi creati da sé». Più della peste, una parola si propagò di bocca in bocca: ‘untore’, e il «vocabolo fu ben presto comune, solenne, tremendo».
Ad illustrare questo parossismo, basti un esempio, preso tra i tanti. Accadde in una chiesa che un vecchio, per aver spolverato la panca prima di sedersi, fu accusato di ungere le panche e, senza alcun riguardo per l’età e per il luogo, fu dapprima percosso violentemente e poi condotto ai giudici per essere sottoposto a tortura.
La deriva delle menti si accompagnò ad un progressivo imbarbarimento dei costumi. Si giunse a sospettare perfino degli stessi familiari. La follia di certo non si impadronì di tutte le menti, e tuttavia, come spesso accade quando le parole corrono più veloci dei pensieri, chi mantenne la lucidità non ebbe sempre il coraggio di uscire allo scoperto: «il buon senso c’era – commenta ancora Don Lisander con lapidaria ironia – ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune». Quante volte, anche ai nostri giorni, per le più disparate questioni, ci è dato di fare esperienza di questa amara verità umana! Per la raccolta dei malati da condurre al lazzeretto, un ospedale, se così poteva chiamarsi, costruito nei secoli precedenti nella periferia della città, fuori Porta Orientale, per ricoverare le persone affette da malattie contagiose, furono reclutati uomini scelti tra la peggiore feccia della città, i cosiddetti ‘monatti’, persone senza scrupoli che ben presto, nella quasi totale anarchia, diventarono i veri padroni di Milano.
Ogni disastro collettivo- sottolinea Lalli- ha la sua storia propria, ma in tutti si può osservare lo svolgersi, in maniera più o meno intensa, di alcune dinamiche ricorrenti: dapprima la negazione, o l’edulcorazione, della realtà, poi la paura irrazionale, in seguito la sindrome della congiura, e alla fine la ricerca dei colpevoli: il capro espiatorio.
Gli uomini tendono sempre a rimuovere l’idea della morte individuale, ma ancor più inaccettabile appare alla loro coscienza la morte dei grandi numeri, la morte senza nome, la sciagura che non si annuncia. Da qui l’esigenza di identificare a tutti i costi dei responsabili, sui quali vendicarsi della malasorte. La storia (anche quella recente e a noi vicina) è piena di queste ingiustizie travestite da giustizia: «Una feroce forza il mondo possiede, e fa nomarsi dritto», aveva avvertito il grande scrittore lombardo nella tragedia dell’Adelchi.
È rimasto celebre, a questo proposito, nella peste di cui si parla, il processo che nell’estate di quell’annus horribilis si svolse a carico di alcuni uomini accusati di spargere in Milano unguenti velenosi, e descritto a parte dal Manzoni nella famosa Storia della colonna infame, opera destinata a fare da appendice al racconto manzoniano.
Un addetto al tribunale della sanità, tale Guglielmo Piazza, accusato di essere un untore – pare sulla base di una voce messa in giro da una donnetta – , per sottrarsi al terribile supplizio della tortura, allora in auge nella prassi giudiziaria, volendo approfittare dell’impunità promessagli in cambio della rivelazione di altri complici, chiamò in causa un barbiere, Giacomo Mora, il quale, stravolto a sua volta dalla tortura, fece altri nomi di persone che alla fine vennero barbaramente giustiziate insieme ai due imputati principali. I giudici disposero altresì che la casa del Mora venisse rasa al suolo e al suo posto fosse eretta una colonna che, concepita a perenne ricordo dell’infamia attribuita ai condannati, e abbattuta nel 1778, verrà piuttosto ricordata come esempio atroce di infame ingiustizia.
La condanna di Manzoni dell’operato dei giudici in quella triste circostanza è recisa, né vale a suo parere invocare come attenuanti la nequizia dei tempi o il condizionamento sociale. Per lo scrittore agisce in ogni occasione il primato della coscienza e della responsabilità individuali: il fatto che la legge desse ai giudici la facoltà di far ricorso alla tortura, non implicava che essi vi dovessero ricorrere necessariamente, né l’ignoranza diffusa circa gli unguenti velenosi e la loro efficacia sugli organismi umani poteva costituire sufficiente attenuante per quei magistrati, la cui condotta avrebbe dovuto ispirarsi a criteri di giudizio ben superiori rispetto alla mentalità comune. Essi vollero invece soddisfare la feroce sete di vendetta di una folla impazzita. Il “garantismo giuridico” del cattolico Manzoni affonda nel Vangelo, e nella conseguente responsabilità personale, la sua prima e più robusta radice.
In mezzo a tanta desolazione e miseria umana, una luce tuttavia rifulse: l’opera meritoria, e che si rivelò insostituibile, dei religiosi, secolari e soprattutto regolari. Essi furono «saldi di coraggio, al loro posto». Nel descrivere la loro carità operosa, Manzoni dà al grande affresco della peste la sua pennellata più sublime.
Nell’assenza di ogni effettiva autorità, per governare il lazzeretto, il tribunale della sanità non seppe far di meglio che affidarne la gestione ai frati cappuccini. Coloro che erano investiti di pubblica responsabilità, di fronte alla inettitudine e all’egoismo dei molti e dei più, conferivano potere e responsabilità agli unici che non lo rifiutavano: i frati.
E fu cosa davvero singolare veder svolgere compiti di autorità a uomini, i monaci francescani, alieni per stato e per intima vocazione da ogni autoritarismo, e che furono in quel luogo di dolore non solo confessori, ma ancor più «soprintendenti, amministratori, infermieri, cucinieri, guardarobai, lavandai, tutto ciò che occorresse»: tanto è creativa la forza del Vangelo, che tutto inventa, tutto trasforma, tutto forgia al fuoco di un amore che non conosce né misure né criteri umani.
Al gravoso e delicato compito di presiedere il governo di quella gigantesca struttura sanitaria fu designato padre Felice Casati, che, come ci informa il Manzoni, «godeva un gran fama di carità […] e di fortezza d’animo»; e gli fu dato come assistente padre Michele Pozzobonelli, «ancor giovine, ma grave e severo, di pensieri come d’aspetto».
Era padre Felice un uomo che non si risparmiava, né di giorno né di notte, per soccorrere i malati e per coordinare gli sforzi, che vide attorno a sé morire la gran parte dei suoi confratelli (che lasciavano questo mondo «con allegrezza») e che alla fine della sua missione, sopravvissuto quasi per miracolo, ringraziava il Signore per avergli concesso l’alto privilegio di servire Gesù Cristo negli appestati, e non mancava di chiedere pubblicamente perdono per le sue mancanze, lui che tutti aveva superato nella sollecitudine operosa.
Come avviene in tutte le disgrazie collettive, anche nella peste descritta dal Manzoni un pensiero, sentito con minore o maggiore consapevolezza, correva in tutte le menti: ciò che accade è solo frutto degli errori degli uomini, o è anche ammonimento di Dio? Rimarrebbe deluso- questo il commento di Lalli- chi cercasse nel capolavoro di Manzoni una risposta ingenua. La risposta va cercata tra le pieghe della storia degli uomini, che è per tanta parte storia di sangue e di forza bruta; e nella natura, che, ancorché uscita dalle mani di un Dio d’amore, è autonoma nelle sue leggi e nelle sue dinamiche. I Promessi Sposi è il grande poema della Provvidenza divina, ma è anche il racconto della libertà dell’uomo, ed è, soprattutto, il romanzo della compassione. Il dolore e la bellezza, presenti si può dire in ogni pagina del racconto, sono, nella penna del grande poeta cristiano, le due facce della vita, che è sempre dono di Dio di cui un giorno bisognerà rendere conto. La risposta il grande scrittore l’affida all’arte sua sublime.
Renzo, giovane onesto e probo, nonché insofferente di ogni ingiustizia, che nel racconto manzoniano è, insieme a Lucia, sua promessa sposa, il protagonista principale, mentre si aggira tra i viali del lazzeretto alla ricerca della sua fidanzata, che ha saputo essere lì ricoverata, si imbatte in padre Cristoforo, il santo cappuccino che è stato per loro consigliere e protettore. Il frate, che in quel luogo presta amorevole servizio ai malati, trovandosi a dover rintuzzare i propositi di vendetta che Renzo, in un momento di scoramento, temendo di non ritrovare viva la donna che ama, si lascia scappare all’indirizzo di Don Rodrigo, suo persecutore la cui insana passione per Lucia è alla base di tutte le sue traversìe, conduce il giovane dentro una capanna in cui giace un uomo nel quale Renzo riconosce il suo nemico. Don Rodrigo, l’arrogante e capriccioso signorotto che nella trama romanzesca incarna l’umana perfidia (e che può ben rappresentare il prototipo di un certo uomo moderno che coltiva la sola religione del potere, del denaro e del sesso), il potente a cui tutti si inchinavano, è ridotto dalla peste in fin di vita: «Stava l’infelice, immoto; spalancati gli occhi, ma senza sguardo; pallido il viso e sparso di macchie nere; nere ed enfiate le labbra: l’avreste detto il viso d’un cadavere, se una contrazione violenta non avesse reso testimonio d’una vita tenace. Il petto si sollevava di quando in quando, con un respiro affannoso; la destra, fuor della cappa, lo premeva vicino al cuore, con uno stringere adunco delle dita, livide tutte, e sulla punta nere».
«“Tu vedi!”» disse il frate con voce bassa e grave». “Può esser gastigo, può esser misericordia”».
Anche in questi nostri incerti giorni, in quest’epoca in cui l’umanità appare così scaltrita, così informata, così autosufficiente, e così radicata nell’idea che certi episodi siano solo un lontano ricordo dei “secoli bui”, di fronte ad eventi mondiali che sembrano sconvolgere i nostri piani e nostri schemi mentali, è lecito farci la stessa domanda che si fa – e ci fa – il Manzoni alla fine della descrizione della tragica morte Don Rodrigo: è giustizia- conclude Lalli- o è misericordia?