Oltre mille illustrazioni della Divina Commedia realizzate nell’arco di 35 anni di lavoro, e poi le tavole del Palio di Trevi, della storica Giostra della Quintana di Foligno, le opere dedicate a Federico II, al Medioevo, ai paesaggi italiani. Un legame con l’Italia, quello del pittore, scultore e illustratore tedesco Bernhard Gillessen, espresso attraverso la sua arte e costruito nel tempo, da quando nel 1956, all’età di quattro anni, è arrivato a Varese per poi spostarsi in varie città della penisola, tra cui Rapallo, Genova, Napoli, Roma, Spoleto e infine Trevi, dove tuttora risiede dal 1982.
Un talento per la pittura che porta Gillessen a conquistarsi già nel 1964, a soli 12 anni, uno spazio espositivo al Deutsches Museum di Monaco di Baviera e nel 1967 al Palazzo Valadier di Roma. Un amore per il mondo dell’arte sviluppato sin da piccolo frequentando stimolanti ambienti artistici e culturali europei grazie al patrigno e mentore Adalbert Ustch, mediatore di collezioni d’arte e direttore di biblioteche sia in Germania che in Italia.
Influenzato dall’espressionismo tedesco di Ernest Ludwig Kirchner e dalla tradizione dei maestri incisori tedeschi del XVI secolo, tra cui Albrecht Durer, Gillessen delinea una sua personale ed eclettica impronta artistica votata ai grandi temi esistenziali meritando l’attenzione di saggisti e critici d’arte. Già nel 1974 Domenico Purificato ne sottolinea “l’empito e la fantasia” e la capacità di proporre non solo un modo “di intendere e sentire la vita, ma anche giudizio, avvertimento, condanna di una condizione umana, espressi usando i naturali, intramontabili mezzi tecnici e il linguaggio pregnante con i quali ogni autentico artista si inserisce stabilmente nel novero dei creatori”.
E se per Ferruccio Ulivi si deve entrare nella officina di Gillessen “con rispetto”, Sandra Giannattasio definisce la sua arte come un “nobile esercizio di introspezione” che “riflette continuamente, nel processo stesso di formulazione e associazione intellettuale e formale delle proprie immagini, le capacità di uno spirito eccezionale, che è al tempo stesso poeta e filosofo, sognatore ed erudito”.
“Un solitario tra mondi diversi e un avventuroso cercatore”, come lo definisce Hocke, con le sue visioni e immagini oniriche restituite da disegni, incisioni, acquerelli e dipinti a olio, e che ha definito il suo percorso artistico nel tempo lungo due binari legati alle sue radici familiari: quello illustrativo, probabilmente ereditato dal nonno materno, stampatore, con un focus sull’uso del bianco e nero, sulla scrittura e l’arte della precisione; il secondo, quello più astratto e metaforico legato al nonno paterno, il pittore impressionista Friederich Wilhelm Utsch.
Maestro, lei è nato a Dusseldorf e nel ’56 è arrivato in Italia per il lavoro di sua madre, la stimata fisioterapista Thea Gillessen, e vi è poi rimasto. Che influenza hanno avuto sulla sua arte i luoghi del Bel Paese?
I luoghi in cui ho vissuto hanno influito tantissimo e sono stati per me fonte di ispirazione. In Liguria, ad esempio, ho vissuto anche a Villa Marzano a Nervi, una meravigliosa villa sul mare, e le mie prime opere sono infatti per lo più figurative ispirandosi proprio alle bellezze del paesaggio ligure. Poi sono arrivato a Roma nel 1967 e devo dire che sono stato fortunato e privilegiato perché grazie a mio padre, direttore allora alla Trewess di Roma (oggi Galleria Colonna, ndr), ho avuto modo di conoscere la “grande arte”, i grandi maestri del passato, non solo visitando i musei ma anche le collezioni d’arte private. Le mie opere inoltre sono spesso corredate, a livello catalogativo-visivo, da citazioni sulla cultura della città sacra, Caput mundi.
Dopo si è trasferito a Spoleto e poi a Trevi, in Umbria, in luoghi molto diversi dalla grande città e nei quali ha scelto di fermarsi.
Sì, a Spoleto all’inizio vivevo in un’affascinante torre medievale e c’era un ambiente culturale molto vivace anche grazie al Festival internazionale che si svolge ogni anno nella cittadina. L’Umbria poi ha una storia legata alla mistica perchè Trevi è stata per molti secoli il ritiro degli eremiti e pare che San Francesco abbia cominciato proprio da Trevi. Sono venuto qui per stare in contatto con i luoghi sacri e ho dedicato tantissime mie opere ai sommi percorsi di San Francesco, San Benedetto, del Beato Ventura, Sant’Angela da Foligno, Santa Ildegarda di Binga, Santa Rita. Tutte figure che prima di tutto ho studiato e approfondito e le cui vite mi hanno affascinato.
Lei ha anche realizzato importanti illustrazioni di opere letterarie, come quella del “Quadriregio”, poema epico-didascalico del XIV secolo di Federico Frezzi, dell’Antico e del Nuovo Testamento, e infine, da appassionato di Dante e membro della Società Dantesca Germanica, l’opera più imponente, l’illustrazione della Divina Commedia. In quest’anno dedicato al settecentenario della morte del Sommo Poeta, ci sembra importante soffermarci in particolare su quest’ultima.
Le mie opere sono sempre piene di citazioni che si riferiscono spesso anche al mondo della musica e della poesia. Un esempio è appunto la Divina Commedia di cui ho illustrato tutti i canti, tre o quattro illustrazioni per ogni canto, per un totale di circa mille tavole. Nel realizzarle, mi sono imposto una sorte di “autotortura” ascetica, di usare cioè una tecnica diversa per ogni tavola illustrativa. Questo perché se mi concentro solo su una modalità divento meccanico e questo è l’opposto dell’arte. Quindi tutte le tecniche utilizzate per realizzare le illustrazioni sono singole, separate. Negli anni ho venduto tutte le tavole ai collezionisti ed esistono delle pubblicazioni bibliografiche della mia opera da parte della Società Dante Alighieri, della Società Dantesca Germanica e del Goethe Institut. Purtroppo non ho mai pubblicato l’intera opera, ma sarei davvero felice se qualche editore d’arte o collezionista se ne occupasse.
Qual è il suo rapporto con la città di Trevi e con le istituzioni locali?
Conosco benissimo Trevi, ne ho come una mappa stampata nel cervello. L’ho dipinta tantissime volte, spesso con una prospettiva dall’alto in cui si vedono tutte le abitazioni e i vicoli nei particolari. Sono tutte opere figurative in cui ho utilizzato molta materia e colori. Varie volte ho anche dipinto lo storico Palio di Trevi. Il rapporto con le istituzioni si basa sul rispetto, anche se nei miei 36 anni di mostre non ho mai ricevuto sostegno per le spese affrontate; soltanto la Curia ha appoggiato le mie mostre al museo di San Francesco. Certo sarei contento di ricevere più supporto dalle istituzioni culturali ma, dal canto mio, sono orgoglioso del percorso fatto perchè mi sono sempre sostenuto, seppur con sacrifici, con le mie sole forze finanziarie e quelle di Utsch, fin quando era in vita.
Come si definisce come artista e cosa è l’arte per lei?
Sono stato definito da alcuni saggisti come un pittore-pensatore. Io mi definisco simbolista-filosofico, ma è una definizione parziale perché io sono poliforme, ho tanti “binari creativi molto diversi tra loro. Quando devo definire l’arte, mi piace citare la metafora di Beethoven sulla chioccia, ovvero l’artista è come una grande madre che genera e protegge.
In quali opere si identifica di più?
Nel “Teatro mistico”, che in realtà è un vero e proprio ciclo pittorico, un insieme di opere relative alle varie fasi del Medioevo, e in particolare afferenti a Federico II di Svevia, lo Stupor Mundi, per me un modello, un imperatore incredibile che rappresenta il custode di tutti i valori della cristianità. In una di queste opere, in cui unisco il grafico e il pittorico, lo rappresento come un cavaliere al centro, la cui anima trasfigurata diventa la Mistica che sconfigge con la spada un enorme parassita che rappresenta il male. Poi ci sono le varie arti intorno, tra cui la poesia e l’arte incoronata di spine che sta a significare che chi crea soffre. L’arte è anche questo, il piacere nel sacrificio per arrivare alla conoscenza. Come dice Dante, “fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”.
Che impatto ha avuto la pandemia sulla sua creatività e la sua sensibilità di artista?
Io ho sempre dipinto l’apocalisse e in quest’ultimo anno colpito dalla pandemia, mi sembrava di rivedere i miei quadri. Tutto quello che è successo è simile alle mie tavole dipinte decenni prima. Si dice che gli artisti arrivino prima nelle cose, e io in effetti mi ritengo un po’ “sensitivo”. Potrei dire quindi che la pandemia ha accentuato il mio binario “apocalittico” per certi aspetti attuale. Per esempio durante il Festival del Ciarlatano di Cerreto di Spoleto del 2020, ho allestito la mia ultima mostra in cui propongo alcune immagini dell’incubo pandemico trasportato su tavole in olio. Il titolo che ho scelto per la mostra è stato “Centro Universale di Salute Mentale”.
Un titolo particolare. A cosa si riferiva?
Al fatto che l’arte, o meglio tutte le forme artistiche come la pittura, la musica, la poesia, sono tra le più consistenti e formidabili medicine contro la distruzione e la lotta del bene e del male. San Francesco era anche poeta.
L’arte come salvezza quindi…
Sì, come ultima ancora di salvezza. Siamo in un’apocalisse che cresce, non diminuisce. La mia “ultima sfida” è proprio questo, cercare cioè di mettere quei punti di seme luminescente nel terreno giusto. È una grande responsabilità.
A cosa sta lavorando adesso e quali progetti ha per il futuro?
Sto lavorando tantissimo a quella che definisco “l’ultima sfida”. L’obiettivo è dare risposte definitive archetipiche al percorso di tutti, dell’umanità. Sono opere trascendenti che hanno a che fare con la filosofia steineriana, la fenomenologia di Husserl, la filosofia di Pier Karl Jaspers, che stimo come l’autore moderno più valido. Vorrei dare delle sintesi ultime che parlano del “Vero” e di ciò che non lo è. È molto “pensiero”, perché le opere richiedono una grande responsabilità spirituale e ce la metterò tutta.
Per informazioni sull’artista:
http://bernhardgillessen.altervista.org/
https://www.facebook.com/gillessen.bernhard
(Nella foto di copertina in alto, l’olio di B. Gillessen “Un mattino verso San Martino di Trevi)