Cosa passa attraverso il filo grigio della verità e della ragione? Anzi cosa lega e cosa allontana? Siamo distanze e avvicinamenti. Perduti e ritrovati tra radici e diaspore. Io sono figlio della diaspora. La mia terra e il mio mare sono cammino e viaggio. Nulla si dimentica. Si invecchia per gli altri e per noi stessi. Si muore sempre per gli altri. Forse un giorno qualcuno dirà perché si resta nelle radici…
C’era una volta!
Ho vissuto la mia Calabria abitandola. Nei lunghi passaggi di paesi e nelle sue tre storie di un mondo antico. Quel mondo antico che più non c’è si è trasformato nella mia antropologia dell’anima.
Una metafora?
Vivo di simboli, di miti, di immaginari. Diventano archetipi in una terra che è stata araba e greca, romana e spagnola, orientale e occidentale in un Mediterraneo che ha echi di strade di battuto di terra e di paludi, di sabbia e roccia.
Come quella che ho abitato e che vivo. Ciò che una volta è stato continuerà ad essere nel mio metafisico nostos. Sono nostos e antropos. Due dialoganti personaggi della tradizione. Sono tradizione! Mito Rito. Altrimenti non sono, non sarò.
C’era una volta il mio vicinato. Agorà di costumi e di pensiero. La mia Medina degli azzurri e degli arancioni invasi di luce oltre i boschi nei tagli di amori che ritornano a far festa.
Il ritorno è sempre una festa. Ogni mio ritorno è un amore ritrovato. Mai perso, però.
Non so se si pensa con il cuore o con la mente, con l’anima o con la fantasia. Quando sogno nel sogno le parole hanno una semantica Calabra.
La lingua che è nella mia struttura onirica è quella dei miei radicamenti. Radici che non si perdono e non si trasformano. Restano.
Io non resto solo calabrese. Resto del mio paese. Vivendo qui e altrove tra gli Orienti e i Balcani, gli Occidenti e i mediterranei che hanno echi di universalità.
La Calabria ha tante storie da raccontare e mai da dimenticare. Forse da ricucire, certamente.
Chi dimentica è straniero a se stesso nel meridiano delle cadute care a Camus.
Le mulattiere continuano nel mio immaginario.
Come raccontava Rocco Scotellaro nella sua “Uva puttanella” lucana e calabra. Come incideva nelle sue parole ioniche Raffaele Carrieri attraversando la Sila. Come lottava Carlo Belli per una Magna Grecia dal Golfo di Taranto allo Stretto tra Tirreno e Jonio. Come la vera arte che lascia o meno individuare un luogo ma di quel luogo fa l’universo delle emozioni e delle sensibilità di voci che sono scavo di sensualità.
Gli dei! Il documento non fa arte. Sono le sensazioni diventate percezione che scavano la memoria proustiana di Alvaro. Eppure Proust non ha attraversato la Calabria. Si è raccontato in una stanza ovattata, raccontando il tempo e la memoria in una ricerca che, grazie al perduto, ha dato senso al ritrovato in un ancestrale orizzonte di non limite.
L’antropologia dei luoghi se non è metafisica dei linguaggi interiori è solo archivio e storia. Non mi interessa.
C’era una volta!
Ma quel c’era ci sarà sempre nella nostra metafisica ontologica della spiritualità del tempo. Tempo religioso mai cronologico. Cronos è scissione!
Sono eredità e testimonianza. Radicante e protagonista. Vissuto, tanto vissuto che penso di essere labirinto e archetipo, tra Alvaro e Pavese, che cercano Arianna e Circe. E anche Calipso. Sono figlio di Ulisse o di Enea? Non posso essere di entrambi? Sono Itaca e Profezia? Forse sì.C’era una volta.
Resto fedele al c’era una volta e, proprio per questa fedeltà, le mie immagini sono ingiallite e vivo di tramonti sul mare, di affacci sulle isole, di aranceti e profumi di un vento che ha echi di amori e di parole che giungono da distanze di tempo nella proiezione di un viaggio tra pianure e bergamotto, tra conversazioni interrotte e balconi fioriti, tra onde di sale e baci di mare.
Amarsi tra le acque della Calabria è ascoltare quel vento di sorriso tra la carnalità e un nostos che non conosce l’agonia della nostalgia. Ma della dolce malinconia. Sguardi. Dettagli. Incisi.
Quando si abbandona una terra, la terra non ti abbandona. Quando abbandono la mia terra. Lei mi resta fedele.
Io so anche tradire. Ma gli odori, i silenzi, il canto delle luci, le distanze dei paesi non tradiscono mai. Un paese, è vero, vuol dire non essere soli!
I quattro grandi scrittori calabresi della contemporaneità lo hanno definito: Alvaro, Berto, Grisi e Pavese. E poi Calogero e il grande Selvaggi dei canti ionici.
Gli altri?
Restano documento. Valigie di cartone viaggianti. La mia Calabria è emozione!
Non è realismo. È magia. Non duplicazione del reale. È la magaria ancestrale che mi porto come archetipo nella Turkia delle moschee. Tutto ciò che ho lo porto dentro. Basta una scintilla per portarmelo fuori. Anzi. Tirarlo fuori.
Il mito, la leggenda, i simboli non nascono dal realismo. Ma dal mistero. Abito il fascino di un mistero che nessuno può spiegare. Perché spiegare è uccidere la poesia, ovvero l’incanto. Sono religiosamente incantato dai colori che lascio alle spalle.
Porto con me le mani di mio padre di mia madre che sfidavano nel salutarmi prima dell’ultima curva del paese che mi conduceva oltre. Questo conta per me.
Riascoltare la piazza del mio paese, il bar dove mi ha visto crescere, quegli uomini che cesellavano un dialettale parlare lento con il berretto capo.
Già, il calabrese vuole essere parlato piano, come se ogni parola fosse un silenzio percepito. Mai urlato. Tutto questo è emozionarsi e mai catturare un realismo che resta nei libri. Le emozioni sono scavi di sensazioni. Resto dentro questo immaginario. Vivo non di realismo ma di magia.
Solo la bellezza ci salverà? Certo. Solo il pensiero, oltre la storia e dentro la metafisica ci salverà. Il resto è il leopardiano noioso documento che non fa arte, ma bibliografia archivio note numerate sotto ogni pagina.
No. Non smetterò di vivere il sogno di mia madre e gli uliveti di mio padre nel giardino incantato della favola che non perderò mai.
Ogni volta che ritorno ho bisogno di sapere se quella pianta maltese ha il suo frutto profumato. Se la fejoia ha il colore bianco e rosso. Se la palma del mio giardino ha le sue ombre. Se la pianta di fico continua a vivere oltre la presenza reale di mio padre.La presenza reale. Ecco il tempio ritrovato. Dico Tempio. Perché una terra è un Tempio dove Pitagora una volta recitava numeri e oggi è diventato archeologia della conoscenza. I simboli. Sono i simboli che mordono le mie radici. Altrimenti sarebbe tutto vano, vacuo e terribilmente reale nella fisicità di una geografia fattasi cartina di archivio.
Io vivo di poesia. La poesia della mia terra. Di ciò che continua ad essere vero. Dico Vero. Non reale. Quanta contraddizione tra il Vero e il Reale. Il Vero è ciò che mi abita l’anima. Il Reale è ben altro.
Io sono un segreto nei mie misteriosi viaggi tra la piazza del mio paese e la donna che ho sempre sognato di condurre nei luoghi della infanzia giovinezza suono canto musica colore fichi bergamotti clementine mare peperoncini spuntoni sulle coste di mare… Io amo la mia terra da amare con la donna che amo e mi racconta un’altra lingua che intreccia la mia e la mia incontra la sua lungo percorsi per raggiungere uno scoglio di conchiglia dove poter carnalizzare la sensualità della mia donna con la sensualità della terra mare mare mater.Amo terribilmente questo contatto di passioni e di Eros oltre ogni etica perché la vita è alchimia magia sogno nella Verità e nella morte cavaliere alla ricerca che ancora resiste oltre le brutture degli sconfinamenti del reale che vediamo e leggiamo quotidianamente io so e voglio andare oltre con un pezzo di pane e la mia soppressata gustata sullo Ionio o sui Tirreni e amare l’amore e non smettere di essere amore per continuare ad amare la mia terra con il mio meridiano oltre ogni storia e dentro l’essere uomo con l’armoniosa ricerca di ciò che sono stato e di ciò che sono ed qui che conduco la donna che ho sognato vissuto sogno vivo penetrandolo nell’anima come Leucó tra il mito il selvaggio il rito armonioso e terribile come i ricordi di un tempo tagliato nel mosaico delle vite.Qualcuno mi racconterà un giorno che tanto tempo fa c’era una volta il canto della luna che recitò le distanze che si fecero vicinanze lontane.