A cento anni dalla nascita di Pasolini il discorso potrebbe aprirsi a tutto campo ma c’è un Pasolini che non va dimenticato. Pier Paolo Pasolini resta il poeta del recupero della lingua e del recupero delle contaminazioni tra dialetto e lingua italiana. Il dialetto è lingua madre-terra-pater. Anche se non volle ammetterlo in lui c’è il Pavese, che considerò ingiustamente “provinciale”, dei primi scritti e di “Paesi tuoi” oltre che il Pavese del mito e della grecità. Pasolini ha scavato nella complessità della parola portando alla luce le radici comunicative di un popolo all’interno di una temperie regionale e nazionale anche in in immaginario tra mondo contadino, paese e città. Si serve delle semantiche delle metafore e delle allocuzioni.
Il valore del linguaggio poetico ha certamente una sua misura stilistica fondamentale e si spiega su metodologie che hanno una loro insistenza in un rapporto tra prosa e verso. L’oralità ha sempre dimostrato una particolare incidenza nei processi di definizione e di trasmissione di una comunicazione che sottolineava una questione di identità.
Nel 1942 pubblicava “Poesie a Casarsa”, un testo che apre una prospettiva dialettica in ciò che Dante aveva definito “volgare” ed “eloquentia”, (cfr. “Pasolini e il Friuli. Una etnia sulla pelle di un poeta”, 2006, da me curato per il Mibact). Negli anni Quaranta del Novecento Pavese stava già definendo il suo ultimo viaggio tra il mito, il paese e la parola. Il legame tra paese, mito, linguaggi, in fondo, è il Pasolini che resta, vivendo chiaramente in Pavese, soprattutto sul piano poetico in una visione in cui la poesia è un abitare la lingua. Con questo testo, infatti, aveva ben tracciato il ruolo che doveva avere la lingua, in questo caso specifico il dialetto, assorbita come partecipazione di un vero e proprio etnos in quanto l’alchimia della parola si incontrava con i contenuti di un territorio. “Poesie a Casarsa” è il testo che continua a scavare tra lingua e la visione onirico – antropologica. Appunto una antropologia della poesia si dipana da qui come fiaba-favola.
I veri contenuti del territorio restano i luoghi reali e allegorici del paese. Per Pasolini il Friuli veniva vissuto attraverso due componenti che restano emblematiche: la lingua e la sua tradizione e il paese nella sua capacità di comunicare un modello di condivisione tra il passato e il presente. La lunga memoria è un cammino che porta agli orizzonti delle radici – paese.
E dentro il paese, ovvero dentro l’essere il paese, ci sono tutti gli addentellati che danno una ragione ad un rapporto tra lingua ed esistenza. Si pensi alla poesia di tre versi che apre “Poesie a Casarsa” (poi confluite, queste poesie, in La meglio gioventù del 1954) nella quale si legge: “Fontana di aga dal me paìs./A no è aga pì fres-cia che tal me paìs./Fontana di rustic amòur” e ancora in La nuova gioventù (“Poesie friulane 1941 – 1974”), 1975.
Pasolini attraverso il suo affermare i codici della realtà etnica, in forma di rito-liturgia, friulana come identità è riuscito a contestualizzare una dimensione geografica e quindi anche storico-demologica. Scavando nella lingua e riportando sullo scenario quotidiano una realtà demo – antropologica i cui risultati rappresentano un dialogo costante tra tradizione e letteratura.
Il recupero della lingua nella tradizione delle etnie è un elemento che chiama in causa modelli linguistici e fattori antropologici. Il valore del linguaggio poetico ha certamente una sua misura stilistica fondamentale e si spiega su metodologie che hanno una loro
insistenza in un rapporto tra prosa e verso.
L’oralità ha sempre dimostrato una particolare incidenza nei processi di definizione e di trasmissione di una comunicazione che sottolineava una questione di identità. Recuperando una lingua Pasolini non ha fatto altro che ripristinare un dialogo tra popolo e territorio. Un dialogo che ha significato, e significa tuttora, uno scavo in quell’etnos che si porta dentro i segni di un radicamento che è sentimento della memoria. Memoria – paese. È qui che si stabilisce uno iato fondamentale.
Ci troviamo di fronte ad un verseggiare che ha delle matrici chiaramente etniche perché non si tratta di un vero e proprio dialetto in sé ma di una lingua composita che è segno tangibile di un processo non solo letterario ma profondamente antropologico. Appartenenza ad un paese perché è qui che Pasolini ha trascorso le estati della sua infanzia. Il tempo non è un valore aggiunto bensì è la memoria dilatata nel cerchio magico dell’ascoltare i ricordi che sono nel vissuto ma vivono nel presente.
C’è un altro fattore che è quello di sentire il paese come territorio vasto e immerso in quelle parole che restano nella consapevolezza di un rapporto con l’altro stabilendo sempre dei dialoghi.
Pasolini sosteneva che: “La lingua parlata è dominata dalla pratica, la lingua letteraria dalle tradizioni”. Quindi il valore della lingua resiste perché dentro il quotidiano ma chiaramente non può fare a meno del sostegno di un incontro che risulta sempre
necessario tra messaggio letterario e percorso sviluppato dalla tradizione. Ma la tradizione è anche memoria. Tradizione – tempo – memoria. Il Pasolini che lega la lingua ai linguaggi e questi ad una società completamente in transizione. È il poeta di Casarsa che incide un solco notevole per comprendere la tradizione oltre la conservazione in un contesto tra ribellione e innovazione dei nuovi saperi linguistici. L’altro Pasolini verrà dopo. Pasolini dei linguaggi recuperati alla grammatica dell’anima poetica è fondamentale. E se giunge a confrontarsi con il mondo greco e i miti della classicità lo deve al suo scavo pavesiano, nonostante la sua contrapposizione a Pavese stesso. La teatralità greca è una teatralità popolare, così come il suo incompiuto lavoro su San Paolo al quale ho dedicato diversi saggi. Il resto è nella dialettica. Ma questo è un altro discorso.