Timau (Udine), 4 agosto 2022 – Alle 8,30 la guida, Nicole, ci aspetta all’ingresso del Museo della Grande Guerra a Timau, una frazione del Comune di Paluzza. Il sentiero che ci attende è il 401. Siamo in Friuli e so per certo che qui non esistono sentieri facili. Ho chiamato il Museo proprio per avere alcune rassicurazioni. “Si, ci sono 500 metri di dislivello ma si può fare”. Specifico che camminiamo ma che non siamo escursionisti esperti.
Il Museo di Timau organizza spesso delle salite sul Pal Piccolo e su altre cime delle Alpi Carniche dove visitare le trincee della prima guerra mondiale e anche se questa settimana non sono in programma, sono disponibili ad accompagnarci su.
Arriviamo puntuali e troviamo altri due turisti che saliranno con noi. Sono olandesi e stanno facendo dei sopralluoghi per un documentario. Resteranno in quota per due giorni, dormiranno nei rifugi.
Iniziamo la salita.
Siamo qui (sia io che i giornalisti olandesi) perché ho (abbiamo) letto “Fiore di roccia” un romanzo storico di Ilaria Tuti in cui solo il 20 per cento del racconto è fantasia e il resto riporta fatti realmente accaduti, perché quando la realtà supera l’immaginazione c’è poco da divagare. Il romanzo porta all’attenzione del grande pubblico (oltre un milione e mezzo di copie vendute in Italia e numerose traduzioni tra cui, come ci informano gli amici olandesi, anche in dutch) la storia incredibilmente poco conosciuta delle portatrici carniche ( dal luogo in cui vivevano e cioè la Carnia, in provincia di Udine) semplici donne che durante la prima guerra mondiale ogni giorno, alzandosi alle 3 del mattino, portavano rifornimenti alla prima linea italiana. E lo facevano con la pioggia, con la neve e con il sole trasportando nelle gerle (le tipiche ceste in giunco da portare in spalla) fino a 30 chilogrammi di materiale -medicinali, viveri, munizioni, pezzi di artiglieria, esplosivi, lettere- e scendendo portavano i feriti o i morti.
Ho voluto ripercorrere la salita al Pal Piccolo – 1886 metri-, un dislivello di 1000 metri partendo da Timau – 830 metri sul livello del mare – ma che per noi che iniziamo il cammino da Passo Croce sono solo 500. Le portatrici provenivano da Paluzza, Timau e Cleulis, il paesello nel quale si raccoglievano per ricevere il materiale da trasportare e poi iniziare la risalita. Queste donne percorrevano quotidianamente circa 15 chilometri di salita ripidissima e poi 15 altrettanto scoscesi.
La salita è, per noi non esperti, durissima con pendenze del 15 per cento. I tratti erbosi e all’ interno del bosco sono pochi, si cammina per lo più su sassi e ciottoli che mettono pensiero a doverci ripassare in discesa. Il sentiero è esposto al sole per cui converrebbe salire la mattina anche prima delle 8.30. La discesa sarà terribilmente faticosa, sempre con le ginocchia in tensione per frenare ed evitare scivolate. Inoltre non basta la protezione solare 50: al mio rientro mi rendo conto che le parti non coperte sono completamente ustionate. Il riverbero del sole sulle parti rocciose (ovunque) non concede tregua. Il percorso da seguire è il 401, ma la guida ci propone delle deviazioni sul 401c per poter fare una via un po’ più dolce, ma si rivela comunque sfiancante.
Penso a queste giovani donne che in estate soffrivano la calura e che in inverno affondavano le gambe in circa tre metri di neve indossando niente di più sofisticato di un paio di zoccoli di legno. Mi raccontano che erano abituate alla grande fatica e che – in tempi normali- per non perdere tempo, nel camminare con le gerle in spalla, facevano addirittura la maglia!
Dopo circa 40 minuti arriviamo al Cavernone, una grotta naturale in cui i soldati italiani avevano costruito un edificio a più piani per ospitare gli ufficiali. In assoluto era il luogo più riparato dai bombardamenti nemici. La guida ci spiega che le portatrici non si fermavano qui ma che proseguivano fino alla linea del fronte e cioè in vetta.
Continuiamo a salire e a me sembra sempre meno umana la fatica a cui erano sottoposte le portatrici carniche. In alcuni punti il percorso è una mulattiera costruita appositamente per trasportare i rifornimenti. Si continua a salire e si incontra un altro punto edificato di cui restano solo ruderi ma si riconosce la cisterna per la raccolta dell’acqua che quassù è un bene prezioso perché non ci sono sorgenti.
A mezzogiorno finalmente siamo in vetta. Proprio sulla cresta del Pal Piccolo.
Ci ritroviamo alle spalle del cosiddetto “trincerone” italiano e pochi metri più in là si distinguono chiaramente le trincee austriache. Sono vicinissime, pochissimi metri le separano, impossibile nascondersi.
Non servivano neppure binocoli per faticosi appostamenti, ci si vedeva e ci si riconosceva ad occhio nudo. “Ci sono stati molti episodi di fraternità” racconta Nicole “uno in particolare. Un ufficiale italiano uscì dalla trincea e non gli spararono. Anzi uscì anche l‘ufficiale austriaco e si scambiarono del tabacco. Poco dopo uscirono anche gli altri soldati e per un poco la guerra fu dimenticata”.
Questi giovani infatti si conoscevano. Timau è l’ultimo paese prima di entrare in Austria e aveva solidi rapporti con l’altra valle. A Timau, e solo a Timau, si parla peraltro il tishlbongarish, un vero e proprio dialetto carinziano chiaramente comprensibile in Austria e in Germania.
Molti lavoravano insieme prima della guerra, molti avevano intrecciato le proprie famiglie, molti dovettero decidere da che parte stare. Fu una scelta devastante per chiunque.
La guida ci illustra alcune caratteristiche delle trincee ma tutto si spiega da solo. Altri escursionisti condividono con noi lo sconcerto e il dolore nel pensare a tanti uomini mandati quassù a difendere e a morire.
Sembra una vetta difficile da contendersi e invece italiani e austriaci si sono alternati in assalti vincenti e, a turno, se la riprendevano. Per quanto sembri impossibile, ci spiega Nicole, ci sono molti punti di risalita in cordata e le vittorie erano solo momentanee. Non si contano i gesti eroici da entrambe le parti, ma tanto sacrificio – almeno per noi italiani- non servì proprio a nulla. La disfatta di Caporetto costrinse, dopo due anni di guerra di trincea, ad una rapida ritirata oltre il Piave. Tante vite spezzate.
Tra queste anche quella di Maria Plozner Mentil, unica portatrice a cadere vittima di un cecchino. Si racconta che quel giorno fosse salita in ritardo perché impegnata ad allattare il suo bambino prima di portare i rifornimenti. Era il 15 febbraio 1916, aveva quattro figli e solo 22 anni.
Foto: Marta Tersigni