La memoria del ghetto di Varsavia è parte del mio vissuto. Sono nata a Varsavia poco dopo la fine della guerra. I miei genitori, ebrei polacchi, si sono salvati dalla Shoah perché hanno attraversato il periodo dell’occupazione nazista fuori dalla Polonia. Mio padre, che allo scoppio della guerra si trovava in Francia, si era arruolato nell’esercito polacco combattente a fianco dei francesi. Preso dai tedeschi, è stato considerato da loro prigioniero di guerra e inviato in uno stalag in Germania dal quale fu liberato dagli Alleati nella primavera del 1945.
Mia madre che all’inizio della guerra si trovava in Polonia, poco dopo l’entrata dei tedeschi a Varsavia alla fine di settembre 1939, decise di scappare verso i territori polacchi ad Est, sotto occupazione sovietica dal 17 settembre dello stesso anno.
Dopo varie traversie tra cui l’evacuazione in Uzbekistan, riuscì a tornare a Varsavia combattendo nelle unità corazzate polacche a fianco dell’Armata Rossa.
Non so nulla invece della sorte dei miei nonni , scomparsi nella voragine della Shoah. Vivevano a Varsavia e quindi furono rinchiusi nel ghetto. Il loro destino mi è sconosciuto.
Furono uccisi già nel ghetto o deportati a Treblinka per essere subito gasati? Questo interrogativo mi accompagna da tutta la vita. Ho anche un vivo ricordo da adolescente di quando mio padre andava con me e mio fratello alla spasmodica ricerca di qualche segno del passato sul terreno dell’ex-ghetto. Solo dopo alcuni anni ho capito meglio il dolore che lo muoveva…
L’insurrezione del ghetto di Varsavia, una data indimenticabile nella storia della Seconda Guerra Mondiale, fondamentale per la coscienza ebraica al punto da essere commemorata durante la Pasqua ebraica (Pesach) ed è diventata il giorno di Yom HaShoa (Giorno della Shoah) in Israele. E in Polonia, l’anno scorso il Senato con una votazione unanime , ha deciso di nominare il 2023 l’anno di Memoria degli Eroi del Ghetto di Varsavia. Si è trattato del più grande sollevamento armato degli ebrei durante il conflitto e allo stesso tempo della prima rivolta urbana nella Europa occupata.
Il 19 aprile 1943, alla vigilia di Pesach dell’anno ebraico 5703, i combattenti del ghetto di Varsavia sono passati allo scontro armato con i nazisti. Gli insorti non potevano avere speranza di vincere. Erano mossi dal desiderio di vendetta sui tedeschi, di provocare perdite le più grandi possibili al nemico. In primo luogo però sceglievano di morire con l’arma in mano. Di fronte alla prospettiva di una inevitabile fine non volevano morire passivamente.
Varsavia, prima del settembre 1939 rappresentava il più grande centro ebraico in Europa e il secondo, dopo New York, nel mondo .Vi abitavano circa 380 mila ebrei. Secondo le stime degli storici un abitante su tre di Varsavia era ebreo. E dopo poco più di un anno dall’inizio dell’ occupazione tedesca, dopo varie norme vessatorie, tra cui l’obbligo di portare il bracciale con la stella di David, il 16 novembre 1940 i nazisti rinchiusero gli ebrei nel ghetto circondato da mura che iniziarono a costruire già prima, a giugno.
( Costruzione muro) (Mappe) (Sequenze vita nel Ghetto)
Il ghetto fu diviso in due parti – ghetto grande e ghetto piccolo. Il ghetto piccolo fu distaccato nell’agosto 1942 durante la grande azione di deportazione e fu inserito nella Varsavia “ariana”. La parte nord, cioè il ghetto grande, rimase fino all’insurrezione del 1943.
L’apice demografico, quando il maggior numero di ebrei – 450 mila circa – fu stipato nel ghetto su di una superficie all’incirca di 4 km quadri, fu nell’estate 1941. Al ghetto arrivarono infatti ebrei dalla zona intorno a Varsavia , ma anche dalla città di Lodz. Erano molto più numerosi che gli ebrei che abitavano Varsavia prima della guerra.
In una così enorme concentrazione di gente gli abitanti del ghetto erano soprattutto tormentati dalla fame e dalle malattie. Possiamo dire che fino al 22 luglio 1942 , cioè l’inizio della grande deportazione (la Grosse Aktion), vi fu il periodo di sterminio indiretto. La gente nel ghetto moriva “per cause naturali”, per via delle terribili condizioni sanitarie, della fame, delle malattie. Vi furono nel ghetto anche due grandi epidemie di tifo.
La svolta nella storia del ghetto di Varsavia avvenne il 22 luglio 1942 quando comincia lo sterminio diretto.
300 mila ebrei furono scacciati attraverso il ghetto sull’Umschlagplatz e trasportati direttamente alle camere a gas di Treblinka. (tra cui personaggi eminenti come Janusz Korczak che, pur potendo salvarsi, non volle abbandonare i suoi bambini dell’orfanotrofio). (Foto – 3O Korczak)
Il ghetto parziale che rimase dopo questa azione fu radicalmente ridimensionato . Vi erano rimasti circa 60 mila ebrei di cui 30 mila autorizzati legalmente, possedevano i cosiddetti numeri per la vita e potevano lavorare nelle officine tedesche di produzione, chiamate szopy. Quasi uguale fu il numero degli ebrei che continuavano a vivere nel ghetto illegalmente e si nascondevano.
In queste condizioni, quando non vi era ormai più nulla da perdere, tra la gioventù ebrea nacque il pensiero della resistenza armata.
Żydowska Organizacja Bojowa Organizzazione Ebraica di Combattimento
Ancora durante la grande azione di deportazione, il 28 luglio 1942, i militanti dei movimenti sionisti di sinistra fondarono lo ŻOB, l’Organizzazione Ebraica di Combattimento. Vi aderirono in seguito socialisti e comunisti.
Al suo capo vi era Mordechaj Anielewicz dell’Hashomer Ha Tsair, un 24-enne di umili origini, con studi liceali ma con spiccate doti di comando e, tra gli altri leader più noti, vi erano Icchak Cukierman dal Dror, e in seguito Marek Edelman dalla Lega dei lavoratori di tendenza socialista, Bund che finalmente si unì allo ŻOB nel dicembre del 1942, per nominare solo alcuni.
Un’altra organizzazione clandestina nel ghetto di Varsavia fu la ŻZW, l’Unione Militare Ebraica, sorta a cavallo tra il 1942 e il 1943 nell’ambiente dei sionisti di destra del movimento Betar di Vladimir Żabotyński. A suo capo furono Paweł Frenkel , Leon Rodal e Dawid Wdowinski, uno dei pochi sopravvissuti. (Frenkel tra l’altro frequentò la scuola di Marina di Civitavecchia 1937 -38)
Quando il 18 gennaio 1943 i nazisti iniziarono la successiva azione di deportazione si scontrarono con la spontanea resistenza armata dei combattenti dello ŻOB.
Questi ultimi, guidati da Mordechaj Anielewicz s’inserirono nella colonna di ebrei condotti verso l’Umschlagplatz per essere caricati sui treni, e iniziarono a sparare contro i tedeschi e lanciare granate. Mordechaj Anielewicz fu tra i pochi a salvarsi, ma quel giorno nacque la coscienza di potersi opporre e combattere.
“Ebrei! L’occupante passa al secondo atto del vostro sterminio! Non andate passivamente alla morte! Difendetevi!” avvertiva il volantino dello ŻOB.
Cambiò anche l’atteggiamento della popolazione civile che in vari nascondigli cominciò a cercare salvezza dalla deportazione. L’azione di autodifesa durata 4 giorni fece nascere la fede che una resistenza sia passiva sia attiva dava qualche chance di salvarsi. Dopo gennaio 1943 nel ghetto si cominciò febbrilmente a costruire bunker ed altri nascondigli. Lo scontro di gennaio costituì per lo ZOB un punto di svolta psicologico e aumentò anche notevolmente il suo prestigio. Anche se i combattenti non trascinarono dietro a sé tutto il ghetto, furono in grado di fermare l’azione dei tedeschi, togliere ai nazisti le loro armi e soprattutto causare loro perdite. Dimostrarono a sé stessi e ai tedeschi che non erano “pecore che vanno supinamente al macello”. Gli ebrei si convinsero che la resistenza aveva un senso. E quindi, come aveva riassunto Icchak Cukierman “senza la rivolta di gennaio, non ci sarebbe stata quella di aprile”.
Lo scoppio dell’insurrezione nel ghetto
Quando il 19 aprile 1943, i reparti tedeschi sostenuti da alcuni blindati e comandati dal colonnello Ferdinand von Sammern-Frankenegg entrarono di nuovo nel ghetto per distruggerlo definitivamente, insorsero contro di loro circa 300-500 membri dello ZOB divisi in 22 gruppi di combattimento sotto il comando di Anielewicz e circa 250 combattenti del ZZW ed anche gruppi armati sciolti che non appartenevano alle principali organizzazioni di resistenza. Da parte tedesca nelle azioni di lotta giornaliere partecipavano circa due mila soldati della Waffen-SS, della Wehrmacht con formazioni ausiliarie di ucraini, lettoni, lituani e poliziotti.
La prima resistenza ai tedeschi venne dai combattenti dello ŻOB agli incroci tra le vie Gęsia e Nalewki ed anche Miła e Zamenhofa , dove da posizioni sui piani alti dei palazzi sparavano contro le colonne tedesche in entrata e gettavano su di loro bottiglie con benzina. Dopo alcune ore dello stesso giorno rientrarono reparti tedeschi, questa volta sotto il comando di Juergen Stroop e presero forza i combattimenti sulla piazza Muranowski difesa dal gruppo ŻZW (Unione Militare Ebraica) sotto il comando di Paweł Frenkel. Durarono per i successivi 3 giorni. Diventarono simbolo della rivolta le due bandiere – una, sionista con la stella di David e l’altra polacca bianco-rossa, issate dai combattenti di questo gruppo sull’alto palazzo della piazza. (Francobollo Frenkel)
Ciò è stato riportato anche negli scritti dello storico ebreo polacco, Emanuel Ringelblum, a cui si deve l’iniziativa della creazione della straordinaria documentazione sulla realtà del ghetto, sotterrata per preservarla, e dopo la guerra in gran parte recuperata. (6 mila documenti per un totale di circa 35 mila pagine).
Dal 20 aprile sul terreno dello Spazzolificio le lotte erano condotte dai combattenti dello ŻOB sotto il comando di Marek Edelman. Riuscirono nel fermare per un po’ di tempo i tedeschi, facendo esplodere nei pressi dell’ingresso alle officine di produzione delle spazzole una mina speciale. (Da registrare tentativi di azioni da parte di AK e GL per far esplodere il muro del ghetto e attaccare i tedeschi che sparavano sulle le posizioni degli insorti).
Le lotte regolari nel ghetto durarono per appena qualche giorno dall’inizio della rivolta. Continuare la resistenza fu reso difficile per mancanza di munizioni e dagli incendi provocati deliberatamente dai tedeschi che spingevano gli insorti verso i bunker e le cantine. Gli insorti vi si nascondevano in mezzo alla popolazione civile organizzando spedizioni e trappole nei confronti dei tedeschi che stavano penetrando il ghetto. Gli scontri assunsero un carattere sempre più convulso. Dalla fine di aprile gli insorti durante il giorno si nascondevano nei bunker. Uscivano durante la notte e allora avvenivano scambi di fuoco con le pattuglie tedesche. Gli scontri con i tedeschi capitavano anche quando i bunker venivano scoperti. Una tra le battaglie maggiori di questo genere è stata svolta dal gruppo di Marek Edelman nei giorni 1 – 3 maggio.
Le poche centinaia di insorti rappresentavano appena una frazione della popolazione del ghetto che nell’aprile del 1943 contava 45 – 50 mila persone. Ed è stato proprio l’atteggiamento della popolazione civile che non volle sottomettersi agli ordini tedeschi di deportazione e con testardaggine rimaneva nei bunker e nei nascondigli ad aver determinato che l’azione della liquidazione del ghetto ad opera dei nazisti durasse fino a 4 settimane.
L’obiettivo dei tedeschi era deportare i lavoranti nelle officine verso i campi di lavoro nella zona di Lublino mentre i cosiddetti ebrei “selvaggi”, cioè non impegnati nel lavoro – verso la morte a Treblinka. La generale resistenza passiva della popolazione fu per loro sorprendente. Furono costretti a districare un isolato dietro l’altro. Per scacciare gli ebrei dai nascondigli, incendiavano casa per casa usando benzina e lanciafiamme. Dentro i bunker scoperti buttavano fumogeni e li distruggevano con esplosivi. I civili catturati venivano forzati verso l’Umschlagplatz da dove partivano i trasporti (dal 12 maggio solo per Treblinka), ma molti insorti e persone civili venivano uccise sul posto.
Nascondersi nei bunker sotterranei era un’esperienza estrema: affollamento, mancanza d’aria, di acqua e di cibo, il caldo e il fumo che arrivava dagli incendi che infuriavano intorno, continua tensione, necessità di rimanere senza muoversi e nel silenzio per non svelare la posizione del bunker alle pattuglie tedesche. Le persone rinchiuse nei bunker spesso non avevano alcun contatto col mondo esterno per vari giorni. Ancora più atroce fu la sorte di chi si nascondeva sui piani più alti dei palazzi incendiati. Molti, intrappolati in questo modo, si decidevano di fare salti suicidi sul selciato – nel rapporto di Stroop abbiamo foto che lo documentano. Negli incendi, sotto le rovine dei palazzi che cadevano, nei bunker fatti esplodere o sotterrati morirono migliaia di persone.
Qui non si può fare a meno di far vedere una foto scattata da uno dei pompieri polacchi, Leszek Grzywaczewski, coinvolti dai tedeschi per impedire che gli incendi si propagassero all’infuori del ghetto. L’autore della foto, appartenente ad una sequenza di cui recentemente è stata scoperta un’altra parte, ha aggiunto sul retro una sua descrizione: “I tedeschi incendiano i palazzi lasciati dagli ebrei. Dal balcone dell’ultimo piano una famiglia composta da 5 o 6 persone si prepara ad un salto suicida. Non hanno eseguito l’ordine dei tedeschi di uscire e ora non possono più scappare. Noi, non li abbiamo aiutati, anche se ciò sarebbe stato tecnicamente possibile”.
Vorrei anche riportare un ricordo scritto dal mio amico Jakub Gutenbaum che all’età di 13 anni fu scoperto dai tedeschi durante la rivolta nel ghetto nel rifugio in cui si nascondeva con la madre e il fratello e condotto verso l’Umschlagplatz per essere deportato.
“Lo scenario intorno a noi era incredibile. Su entrambi i lati della strada le case erano in fiamme, nell’aria si innalzava il fumo e la fuliggine, tirava un forte vento causato dalle correnti d’aria. Esiste una foto molto nota di un gruppo di ebrei con le mani in alto; (Foto – 8 Bambino mani in alto) in primo piano si vede un ragazzo, più o meno della mia età. La realtà si presentava esattamente così. Tutto il gruppo al quale sono state aggiunte ancora altre persone è stato composto in colonne e condotto al centro della strada verso l’Umschlagplatz. Qualcuno ha provato a fuggire di lato ma è stato falciato da una salva di pistola. Sparavano anche a coloro che per strada cadevano.
La nostra marcia non durava a lungo: avevamo da percorrere appena 200-300 m.
Sul posto ci hanno condotto in una sala grande, completamente vuota e buia al primo piano in cui prima, nei tempi normali, c’era una scuola. I signori della vita e della morte, ora in senso letterale, erano gli Ucraini in divise tedesche delle SS Galizien che non solo erano sordi alle nostre suppliche di avere un po’ d’acqua ma di tanto in tanto irrompevano con grossi bastoni in mano con i quali arrecavano colpi mortali alle teste delle vittime da loro scelte. Erano ubriachi, ma abbastanza consci per chiedere oro, preziosi, orologi. Si dava a loro qualcosa, più probabilmente soldi, il che portava sollievo per un po’ di tempo. Uscire e anche alzarsi non era permesso. I bisogni si facevano addosso. Eravamo seduti nel terrore stringendoci a vicenda e coprendo la testa con le mani appena appariva qualcuno dei boia. Queste ore sull’ Umschlagplatz appartengono alle peggiori che ho vissuto durante l’occupazione…”
Jakub fu deportato al campo di Majdanek dove perirono nella camera a gas sua madre e il fratellino. Egli fu in seguito mandato al campo di Skarżysko-Kamienna dove svolgeva un estenuante lavoro in una fabbrica di munizioni. Dopo l’evacuazione le successive tappe furono Buchenwald, Schlieben e Terezin, dove fu liberato nel 1945. Rientrato in Polonia, fu accolto da un orfanotrofio e poi andò a stare con suo zio a Mosca e terminò gli studi all’Istituto Energetico. Tornato a Varsavia, fece una brillante carriera all’Accademia Polacca delle Scienze nell’ambito della matematica e dell’automatismo. Fondò in Polonia l’associazione “Figli dell’Olocausto” di cui fu per diversi anni presidente.
Jurgen Stroop, il comandante delle forze tedesche aveva scritto nel suo rapporto sulla repressione della rivolta del ghetto che i suoi reparti catturarono e uccisero più di 56 mila ebrei e scoprirono 631 bunker. Secondo questo rapporto i nazisti deportarono ai campi di lavoro nella zona di Lublino 36 mila persone, gli altri ebrei morirono sul posto o nelle camere a gas di Treblinka. I dati forniti da Stroop sono senza dubbio esagerati ma non disponiamo di altri. Allo stesso tempo i tedeschi intensificarono nella “parte ariana” al di là del muro l’azione di ricerca degli ebrei che si nascondevano, offrendo per la loro cattura premi in denaro.
Fine della rivolta e liquidazione del ghetto di Varsavia
L’8 maggio 1943 i tedeschi scoprirono il bunker del comando del ŻOB in via Miła 18. Circa 100 combattenti, tra cui Mordechaj Anielewicz e la sua ragazza Mira Fuchrer, furono soffocati dal fumo o si suicidarono non volendo cadere nelle mani dei tedeschi.
Appena poche decine d’insorti riuscirono ad abbandonare il ghetto in fiamme attraverso canali o tunnel sotterranei. La più nota di queste operazioni fu condotta da Simcha Rotem- Ratajzer, “Kazik” (Foto – 9 e 9A) e permise di uscire dal ghetto in fiamme a decine di combattenti tra cui Marek Edelman e Cywia Lubetkin. La maggior parte di loro trovò in seguito la morte o per effetto di una delazione o nelle lotte partigiane. Alcuni presero parte nella successiva insurrezione generale di Varsavia nel 1944.
Il 12 maggio 1943, Szmul Zygielbojm, (Foto – 10) del partito Bund, il rappresentante degli ebrei polacchi presso il governo in esilio a Londra, si tolse la vita in segno di protesta contro l’inazione degli Alleati di fronte all’annientamento tedesco degli ebrei europei e soprattutto per la ormai chiara sconfitta della rivolta del ghetto di Varsavia in cui perse la moglie e il figlio maggiore.
Continuarono ancora scontri con singoli gruppi d’insorti che rimanevano nascosti nel ghetto. Il 16 maggio avendo constatato che il numero di ebrei catturati stava diminuendo, Stroop decise di concludere la sua azione. Quella sera, in segno di vittoria, i tedeschi fecero esplodere la Grande Sinagoga sulla piazza Tłomackie, situata oltre il terreno del ghetto rimanente; grande, splendido edificio solennemente inaugurato nel 1878. Questa sinagoga era il simbolo dell’ebraismo reform, il luogo in cui si radunavano gli ebrei che vedevano la Polonia come loro terra. Vi si pronunciavano drashot (sermoni) in lingua polacca, si svolgevano canti religiosi, ma anche concerti di musiche di Bach e Vivaldi. E’ stata fatta esplodere come segno dello sterminio e della cancellazione definitiva del ghetto di Varsavia.
Stroop scrisse nel suo rapporto:
“Il quartiere ebraico di Varsavia non esiste più!”
Ma nelle case bruciate e nei bunker non scoperti rimasero ancora alcuni superstiti, sia civili che insorti. Rapporti di polizia tedeschi, così come la stampa della resistenza polacca riportarono che ancora a giugno sul terreno del ghetto si sentivano spari. Alcune persone si nascosero tra le macerie fino alla fine del 1943.
Straordinario fu il ruolo delle donne nella rivolta del ghetto di Varsavia. Svolsero funzioni molto importanti come diffusione della stampa clandestina, aiuto infermieristico ai feriti, ogni giorno più numerosi, assicurarono servizi di collegamento in quanto erano facilitate negli spostamenti rispetto agli uomini per la loro maggiore integrazione nella cultura polacca e il fatto che non potevano essere individuate come ebree, non essendo circoncise. Ma lottarono anche con le armi in mano sia all’interno dello stesso ghetto che in seguito fuori le mura. Una per tutte, Tosia Altman.
Impegnata nel movimento giovanile di Haszomer Hacair, leader stimolante e capace. I suoi capelli biondi e il polacco fluente la facevano facilmente passare per una gentile polacca. Ciò l’ha agevolata nel compiere i viaggi tra i vari ghetti in Polonia. Aiutava i gruppi di resistenza a riunirsi e, vivendo nella parte ariana facilitava gli ebrei a fuggire dai ghetti e nascondersi nella parte polacca. Quando fu formato lo ŻOB Tosia Altman fu inviata a contattare l’AK e l’AL per ricevere armi e sostegno. (AK riconosce lo ŻOB solo nell’ottobre 1942 e inizia a fornire armi solo a dicembre).
Ritornò nel ghetto il 18 gennaio 1943 , quando è iniziata l’Azione tedesca. Portata all’ Umschlagplatz , fu salvata da un poliziotto ebreo. Il 18 aprile si trasferì nel bunker di via Mila 18 da dove svolse missioni di collegamento e di soccorso ai feriti intrappolati tra le macerie. Riuscì a salvarsi nonostante le ferite in un difficoltoso passaggio attraverso le condotte delle fogne. Nascosta assieme ad un gruppo di combattenti nella parte ariana, si ustionò gravemente durante un incendio accidentale.
La sua fine fu tragica. Gettatasi in strada fu raccolta dalla polizia polacca che la consegnò ai tedeschi. Non solo non le furono somministrate cure , ma vi è il sospetto che morì sotto tortura.
Vorrei concludere cercando di capire i motivi per i quali l’insurrezione nel ghetto di Varsavia scoppiò così tardi.
Il grande giornalista ebreo polacco, Marian Turski, presidente del Comitato Internazionale di Aischwitz, nel suo ultimo intervento al Parlamento Europeo il 29 marzo scorso ne elenca quattro.
- Gli ebrei a Varsavia non potevano in effetti prevedere la loro fine, se gli stessi nazisti come Heydrich, nel 1938 affermavano che “forse ci vorranno ancora 10 anni prima di liberare la Germania dagli ebrei”. L’azione di sterminio fu accelerata dopo l’operazione Barbarossa e la Conferenza di Wannsee nel gennaio 1942.
- La malattia delle fame, studiata dai medici nel ghetto di Varsavia le cui ricerche furono pubblicate dopo la guerra nel 1946. I risultati di questi studi dimostrano come la fame porta alla graduale scomparsa di reazioni vitali, all’esaurimento dell’energia, alla lentezza dei movimenti, alla sonnolenza, all’addormentamento della psiche. (“Noi ad Auschwitz odiavamo i membri del Sonderkommando, ma solo loro, più forti con le loro più abbondanti razioni di cibo, furono in grado di organizzare una rivolta).
- Fondamentale fu la questione della mancanza d’armi. Se ne rese conto lo stesso Jan Karski, l’emissario della Resistenza polacca AK che per due volte entrò nel ghetto e volle, col suo rapporto sulla persecuzione nazista degli ebrei in Polonia trafugato in Occidente, fermare la Shoah. Il capo della Resistenza polacca, Grot Rowecki , l’aveva convinto che l’azione armata degli ebrei del ghetto di Varsavia non aveva alcuna chance e quindi , di fronte alla scarsità di armi nella stessa AK, non vi era motivo di fornire loro numerose munizioni.
- Per ultima la responsabilità verso i propri cari. Si potevano esporre al maggior pericolo, effetto del sollevamento armato, i familiari, coloro che costituivano ancora la maggiore consolazione?
Infatti, la rivolta scoppiò per merito d quei giovani che non avevano più nulla da perdere, che potevano misurarsi solo con la propria vita.
Roma, 19 aprile 2023 Elzbieta Cywiak