Milan Kundera. Uno scrittore tra l’invasione praghese e il 1968 e l’Ulisse che viaggiò tra la fantasia della immortalità e il bisogno di superare l’ignoranza. L’Occidente come riferimento senza mai distaccarsi dalla cultura ceka ed europea adriatica e mediterranea. Era nato nella Cecoslovacchia boemo di etnia praghese l’1 aprile del 1929. È morto l’11 luglio del 2023 a Parigi.
Uno scrittore che ha fatto della storia una filosofia di esistenza.
Proprio per questo fece del romanzo un’arte. Quell’arte che conosce la necessità della “insostenibilità dell’essere” in un percorso in cui la parola è mediazione tra il tempo e lo spazio. Un tempo indelebile che sovrasta a volte la storia e la rende marginale rispetto all’uomo che trova la vita “altrove”.
Tra una ironia e quegli “amori ridicoli” ha cavalcato il senso degli addii lungo una distesa di personaggi che hanno cercato sia il riso che l’oblio per approdare su un isola che “ulissisicamente” ha scavato in quel senso di immortalità che soltanto i simboli e il mito possono dare o trasmettere attraverso il valore dell’identità che si serve della lentezza e del sipario.
Una letteratura che conosce questo sipario anche se si ha bisogno di capire la frammentarietà dell’ignoranza dentro quegli incontri che a volte hanno l’insignificanza come indignazione. Temi molto cari ad una cultura mitteleuropea tra Kafka e Mann con delle entrate in Cervantes in cui l’Europa è nervo centrale del viaggio antico greco-latino ma anche moderno nell’abbraccio delle Europe che confinano nei mediterranei e negli Oceani con affacci sui Balcani.
Il racconto di una letteratura tra le diversità delle etnie dei linguaggi che si intrecciano in Occidente largo e confusionario e in un Oriente imprendibile come omogeneo pensiero.
La sua letteratura è una Gerusalemme liberata alla ricerca di una Boemia antica o archeologica e di una Praga invasa dai carrarmati sovietici.
La sua insostenibile leggerezza dell’essere è proprio il racconto di un destino nel gioco triste e malinconico della fine. Ecco perché Kundera lascia la sua Cecoslovacchia, città indimenticabile delle radici che sono terra, e va a vivere a Parigi.
Uno scrittore vero nella tradizione della struttura narrante ma anche caposaldo di una scrittura in cui la tradizione si è fatta innovazione nella fiducia del mondo conservatore. Ha scritto.
Scrivere è uscire dalla solitudine ed entrare nella filosofia della follia. Unico rappresentante di una appartenenza mai dimenticata e sempre sofferta.
Tra i suoi romanzi ricordo qui: Lo scherzo (1967),
Il valzer degli addii (1972)
La vita è altrove (1973),
Il libro del riso e dell’oblio (1978), L’immortalità (1990)
La lentezza (1995), L’ignoranza (2001),
La festa dell’insignificanza (2013), Amori ridicoli (1968); tra i saggi: Il destino boemo,
L’occidente rubato e la tragedia dell’Europa centrale,
L’arte del romanzo, Il sipario; tra i libri di poesia cito:
L’uomo, ampio giardino.
Insegnò nella temperie moderna a non scendere nella cronaca e sottolineare la necessità dell’estetica nei linguaggi usandoli come estrema consolazione. I generi letterari game vissuti di esistenze.