Se Franz Kafka scese nell’abisso è prevedibile. Il prevedibile non è il possibile. Il possibile potrebbe diventare anche il superamento dell’impossibile. Ma Franz scese nel divino e toccò gli dei. Gli dei non ingannano. Lui però ebbe sempre il dubbio dell’inganno che lo condusse al senso dell’ambiguo. Capì che la vita è un enigma e che si risolve soltanto nella morte. Abitò i suoi personaggi come si abitano le vite che vanno a tramontare.
Bisogna comprendere il tramonto.
Non è soltanto un cielo rosso o amaranto che porta a riposare il sole. Tramontare è andare. Andare oltre. Cosa ci sarà oltre il tramonto?
Forse un al di là del bene e del male. Nietzsche è lungo il suo cammino. Kafka e Nietzsche hanno in comune le civiltà che muoiono annunciando la fine. Dunque, il tramontare. È parte della vita ma non di una meta.
“C’è una meta, ma non una vita”. Dice Kafka. È come se tutto fosse meta del silenzio. Se la vita è un tramontare la meta è una ricerca di silenzio. Occorre camminare sul limitare dell’onirico. Un fiume labirinto che intrappola fino a quando l’annuncio del tramonto non si intravede in un bagliore in cui l’essenziale è oltre il limite. Possiamo toccare il limite nel momento in cui la frase ultima non interrompa la sua curvatura di senso fino a raggiungere ciò che Kafka definisce come abisso: “È un abisso pieno di luce. Bisogna chiudere gli occhi per non precipirvi”.
Ma in tutto questo c’è una metafisica che smuove il terriccio dell’infinito o all’infinito. L’infinito nasconde comunque la rivelazione. Quello che Herling definì la “febbre metafisica”, ovvero “Quello che Kafka non osava fino alla fine nominare il sacro, descrisse la Rivelazione apparsagli per un attimo”.
Da questo punto di vista l’antistorico Kafka concepì la storia stessa come un inferno. Adorno ebbe modo di chiarirlo quando disse di Franz che “…la storia è un inferno perché non si è colto l’elemento della salvezza”. Ma rincorse non il sacro ma ciò che il sacro a volte nasconde o maschera. Il personaggio è tutto perché è la chiusura dell’isola nel recinto del tragico.
C’è un Zarathustra che invoca la consapevolezza della colpa nel centro dell’universo del tramontare. L’isola non ulissica ma immortale. L’isola non degli uomini ma degli dei. L’assurdo non è mai una deviazione. Bensì un assoluto che colpisce il tempo. Non lineare. Del ritorno certamente.
Fu un cercatore di Dio? Chiaramente sì. Cercatore. Non ricercatore. Paolo Prini lo definì “il più desolato cercatore di Dio”. L’immagine di un uomo vagante e navigante, viandante e solitario soffia sul deserto per un’onda di chiarore che non muterà il corso del sole che è stato destinato, o pre-destinato, tutta la luce impareggiabile e affollarla in tutta l’ombra impensabile. L’imprevedibile del possibile non esiste perché l’impossibile prende sempre il sopravvento. Perché questo avvenga bisogna che si superi il tracciato dell’infanzia, ovvero di un tempo primordiale che sta al di sopra del tempo storico e prenda il sopravvento il tempo del mito.
Il cercatore di Dio non raggiunge la salvezza, ma il Dio che consideriamo impossibile e venga a toccare il cuore. La sua tana è una caverna. Non più un labirinto. Platone è il nasconditore. Non Calipso soltanto. Nel nascosto le trame delle fiamme appartengono a un solo fuoco che è quello dell’angoscia in cui il tremore è un uomo sedotto dalla vita. Il tremore è metafora della paura. La seduzione della vita è il non aver timore della non notte in una riconciliazione tra lo sguardo e gli occhi fissi nello specchio. L’ardente dell’esistenza è nel non aver paura trasformando ciò nella pancia ironia del tutto. Il tutto è necessario come il necessario che non ha il tutto.
Kafka però compie un assalto alla morte rendendola immortale. L’unico pensare è che la morte è immortale. Per restare in ciò occorre scontare la colpa di essere al mondo. Si viene processati proprio per prendere coscienza di ciò perché il rimanente del resto è un personaggio che scompare nell’effimero. Sa bene che si vive, dunque, senza meta è la salvezza la si può anche pensare ma non raggiungerla, perché si resta cercatori o semplicemente trovatori. Essere cercatori di Dio è tramontare ma non perduti o persi nonostante il tempo e nonostante la morte.
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Pierfranco Bruni, nato in Terra Calabra cui è profondamente legato, vive tra Roma e la Puglia da molto tempo. Archeologo, antropologo, letterato e linguista, fecondo saggista e poeta è presidente del Centro Studi Francesco Grisi e vicepresidente del Sindacato Libero Scrittori Italiani. Dal carismatico e sopraffine stile letterario, Bruni è alla seconda candidatura al Nobel per la Letteratura. Già Archeologo direttore del Ministero Beni Culturali e componente della Commissione UNESCO per la diffusione della cultura italiana all’Estero, nel corso della sua carriera è stato docente in Sapienza Università di Roma ed ha appronfondito lo studio rivolto alla tutela e alla conoscenza delle comunità di minoranze etnico-linguistiche.