Arrivò a Galtellì che era ancora l’alba. Non è dato sapere come giunse nel paese della penitenza dei sette anni. Il rupestre non era solo un ambiente. Era una civiltà. Qui non si è solo sardi. Si è isola. Un’isola di terre dove il mare non distante ha le movenze delle canne. Distante con il vento che giunge tra scale e canti che sono intonazioni mediterranee. Forse era giunta con uno sciaraballe o un chinghe, ovvero un serracapriola.
Grazia, aveva preparato per lei una stanza con grande accuratezza dove il rosso e il nero dei pastori campeggiavano. L’aspettava nella sua casa in altura di paese e paesaggio.
Eleonora si incamminò per le strade e i vicoli. Il Medioevo sembra non essere scomparso.
Grazia abitava casa Pintor. Si era fermata in quelle stanze a raccogliere ricordi e fantasie. Suoni di campana di pecore al pascolo. Era rientrata a Galtellì per alcuni mesi. La vita della città e del continente l’avevano stancata un po’. Aveva bisogno di ascoltare il vento della sua gente e le movenze delle canne. Un paese che racconta la storia attraverso le tradizioni. Il canto diventava cantico. Qualcosa di biblico tra il rumore delle ruote dei carri e gli zoccoli degli asini.
Eleonora si era fermata e si guardava intorno. Un paesaggio in cui la favola nasce dal mito. Si abbandonava ad un ascolto tenue del silenzio. Come quando il teatro tace e aspetta la prima battuta. Ad un tratto vide arrivare una donna con un passo veloce e poi in po’ più lento. Era lei. Grazia… Fece un cenno con il braccio. Anche Grazia la salutò e la chiamò.
“Eleonora…Eleonora…”.
Infatti Eleonora Duse, la Divina, era a Galtellì, ovvero a Galte.
Era giunta in questo paese per incontrare lei, Grazia Deledda.
Grazia. Senza alcuna esitazione, le disse subito: “Sei giunta nel paese dove non si pensa al passato. Qui il futuro ci aspetta. Tutto è raggomitolato però nella memoria”.
Eleonora rispose: “Sono qui per incontrarti. Per conoscere i tuoi luoghi e soprattutto le leggende di questa terra. Le fate di Galtellì sono favole belle che mi fanno sognare l’isola dove il mare si ascolta come echi, pur restando nelle caverne. E i folletti non sono fantasmi ma sono nel destino di una civiltà che ha origini mediterranee…”.
Grazia: “Vero. Ma mia cara qui c’è anche la leggenda dei vampiri con la coda d’acciaio e la luna ha sbalzi di pieghe che narra il religioso e il pagano”.
Eleonora: “Un mondo che è attrazione. Ma dimmi… Ti ascolto… Però permettimi prima di sottolinearti un mio pensiero…”.
Grazia: “Certo. Ti ho voluta qui per ascoltarti”.
Eleonora: “Qui hanno preso corpo il tuo romanzo con i personaggi e la storia che resta invalicabile come una tragedia che mi piacerebbe portare in teatro. Il biblico dei nomi resta misterioso. Anche se cerchi di convincermi con una spiegazione ora che osservo il paesaggio il misterioso incarna il destino di questo paese e della Sardegna intera. La natura è materna. Sa essere anche paterna e patrigna. Ho riletto Pascal prima di mettermi in viaggio. È vero. L’uomo è una canna al vento. È un destino inattuabile, forse?”.
Grazia: “Questo paese è l’incastro tra gli uomini e la terra. Vero. Pascal mi aiutato a pensare. Ma io sono di questa terra e le dame Pintor di cui racconto rappresentano un arcobaleno che annuncia la tempesta che sta per passare. Bisogna adattarsi. La magia è una grande avventura. Ma quest’isola potrebbe vivere senza la magia? Non credo. Sai la piccola storia del folletto?”.
Eleonora: “No. Dimmi. Ne ho sentito tanto parlare a Vigevano, ma non conosco i particolari…”.
Grazia: “Ti dico in una sola battuta. Sai, la tradizione vuole che si metta un tizzone acceso alla soglia della porta affinché il folletto non entri… Tu dirai superstizione? Non è solo superstizione. È la nostra cultura che è diventata civiltà o una civiltà che continua nella tradizione delle feste che hanno il folclore di un popolo, quello sardo che a Galte si esprime tutto. Affascinante… Come tu dici: affascinante e terribile”.
Eleonora: “Affascinante, terribile e misterioso come tutto il tessuto contadino e gli occhi delle donne che hanno nello sguardo il dramma del fuoco acceso, che immediatamente però diventa cenere come il tuo romanzo di cui mi sono appropriata per il mio unico film… Ma sei nel luogo del mito e il mito ha bisogno del selvaggio per esistere e resistere”.
Dopo questa discussione si incamminarono verso la casa di Grazia.
Il vento scorreva. Passarono davanti alla chiesa romana di San Pietro. Sfiorarono le siepi dove in alto campeggia una pianta di fichi d’india.
Ad un tratto Eleonora disse: “E il fiume?”.
Grazia la fissò e indicò con la mano un percorso. C’era un bagliore oltre alcuni alberi. La luna rifletteva sul filo d’acqua. Era il fiume che raccoglieva in un cerchio la luna. Quel fiume che sembrava un ruscello. Portava al mare. A poca distanza il mare lanciava un sapore di aria salata.
Poi passarono da una piazzetta e Grazia con un accento sardo disse:
“Qui si svolge il ballo tondo. È un ballo in costume. Fanno un cerchio dove si danza con il canto nuragico che diventa una liturgia in preghiera… Un canto antico che ha richiami ancestrali dei popoli accoglienti”.
Eleonora: “È tutto un rito. Il ballo tondo è arabo. O meglio persiano che rimanda agli antichi sufi della Persia. Proprio a Galtellì il rito dei Mediterranei recita con un immaginario che sfiora l’intera vita orientale pur restando in una identità occidentale. Ho letto di Nostra Signora del Rimedio. Una ritualità che comunque supera il pagano che è intrinseco in quest’isola…”.
A Galtellì il pagano e il sacro sono un intreccio. Riti in cui si vive anche la penitenza e dove i sette berretti rossi raccontano una magaria di pentole d’oro. Ma il sacro è sempre il misericordioso del Signore.
Eleonora e Grazia in silenzio, questa volta, camminavano e sembravano faticare salendo alcuni gradini che portano in cima all’abitazione di Canne al vento. Non esiste il passato. Esiste solo la memoria. La memoria si abita nelle tradizioni.
Eleonora indossava un cappello. Grazia aveva poggiato sulla schiena uno scialle. Ripresero a parlare. Ma le loro voci erano così basse che era difficile percepire. Intanto in lontananza un tenores lasciava echi nel vento.
Eleonora: “Il futuro ci aspetta. Ma la tradizione di questo posto segna radicamenti. Ho visto arrivando a Galtellì dei casolari. Muti. Muti come il popolo sardo. Un popolo che parla con lo sguardo e si porta dentro radici d’epoche che vanno dal Tirreno ai Fenici…”.
Grazia: “Qui il silenzio e il linguaggio sono la rappresentazione di tutto accanto agli usi che si tramandano e al pane fatto di acqua e sale che sembra un’ostia. Il silenzio è la memoria che ci portiamo dentro da secoli. Il linguaggio è tutto ciò che vedi comprese le feste in costume che hanno il nero che fa da scenario. Il carbone… Ma questa è un’altra storia”.
Gli uccelli ora sul fiume intonavano. Il pensiero dei vampiri con la coda di acciaio erano un immaginario. Il velo della pace ondeggiava nel tardo mattino.
Grazia: “resta qualche giorno. Ti porterò dove i mattadores si raccontano…”.
Eleonora: “Sono venuta qui, in questo paese, per vedere tutto e per capire ciò che non ho capito ancora… Resto”.
Si era fatta tardi l’ora. Eleonora lasciò le sue valigie a casa di Grazia. Scesero al centro del paese. Andarono a pranzo. Gustarono un piatto di malloreddus e papassina. Negli occhi della Divina cera la malinconia e la serenità. Grazia portava sulle labbra un sorriso che pochi hanno conosciuto. A Galte la pazienza è d’obbligo.
*Si tratta di un racconto immaginario e che l’autore avrebbe voluto fosse vero. Ma cosa è la verità?
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Pierfranco Bruni, nato in Terra Calabra cui è profondamente legato, vive tra Roma e la Puglia da molto tempo. Archeologo, antropologo, letterato e linguista, fecondo saggista e poeta è presidente del Centro Studi Francesco Grisi e vicepresidente del Sindacato Libero Scrittori Italiani. Dal carismatico e sopraffine stile letterario, Bruni è alla seconda candidatura al Nobel per la Letteratura. Già Archeologo direttore del Ministero Beni Culturali e componente della Commissione UNESCO per la diffusione della cultura italiana all’Estero, nel corso della sua carriera è stato docente in Sapienza Università di Roma ed ha appronfondito lo studio rivolto alla tutela e alla conoscenza delle comunità di minoranze etnico-linguistiche.
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Note
Tratto dall’omonimo romanzo del 1904 della scrittrice Grazia Deledda, Cenere è un film muto girato nel 1916 diretto ed interpretato da Febo Mari. In questa pellicola, girata nell’agosto 1916, si registra l’unica interpretazione cinematografica dell’attrice teatrale Eleonora Duse.
Il film venne prodotto dalla Società Anonima Ambrosio Casa di produzione cinematografica italiana , fondata a Torino il 2 maggio 1906 da Rinaldo Arturo Ambrosio e da Alfredo Gandolfi. La F. A. operò nel cinema muto italiano per circa un ventennio, affermandosi come caposaldo dell’industria cinematografica in quella Torino che, fino alla Prima guerra mondiale, fu capitale del cinema italiano
Cenere, trama del romanzo drammatico
In Sardegna nei primi anni del Novecento, Rosalia giovane ragazza, denigrata e respinta dalla gente per aver avuto da un uomo sposato un figlio illegittimo, lascia il paesino dove vive per recarsi dal padre del bambino di nome Anania. Una sofferta decisione presa per assicurare al piccolo una crescita decorosa lontana dagli effetti negativi causati dalla propria nascita. La donna consegnato il bimbo scompare nella sopportazione del prooriodolore. Passano gli anni e figlio completati gli studi a Roma si fidanza con l’amica d’infanzia Margherita. Tornato in Sardegna, il giovane cerca la mamma. Rosalia precocemente invecchiata per la sofferenza causata dall’affidamento del figlio e per aver vissuto nella precarietà economica si presenta invecchiata e non senza esitazioni. Anania è fortemente siatenuto dal desiderio di recuperare il tempo perduto e formare una famiglia con lei e Margherita, alla quale chiede di accogliere sua madre. La ragazza respinge Rosalia che fugge ancora andando incontro alla morte. Anania che nel frattempo rompe il fidanzamento con Margherita, non riesce a salvare la vita alla madre.
Una critica del 1917 alla pellicola Cenere “Ambrosio film”
…”Una delusione, francamente, dati i nomi non comuni degli interpreti. Primo errore: un soggetto disgraziato che in cinematografo dice meno che niente e che dimostra ancora una volta come non basti il nome di una scrittrice come la Deledda per ottenere un buon argomento. La Duse e il Mari, che, come ripeto, son due artisti troppo apprezzati per essere discussi, si trovano costretti in scene inverosimili e senza rilievo. La messa in scena stessa è ben poco elogiabile ed in conclusione una grande e vera delusione, molti quattrini sprecati ed un’offesa ad una grande artista che forse avrebbe fatto meglio a non venire al cinematografo attraverso un simile soggetto. La fotografia ha dei quadri di buon effetto, ma ne ha moltissimi addirittura sfocati…” (A. Menini, “Film”, a. IV, n. 17, 4.6.1917).
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