Messina, 17 gen. 2025 – Avrebbe compiuto 100 anni a ottobre: il 14 gennaio ci ha lasciato Fortunato Gennaro, partigiano messinese. Una delegazione dell’Anpi di Messina si è recata immediatamente per rendergli l’ultimo saluto e tornerà, stavolta al cimitero di Spadafora, al momento della tumulazione. “È il minimo che possiamo fare – ha detto il presidente dell’Associazione partigiani, Giuseppe Martino – per esprimere la nostra gratitudine a chi ha contribuito a lasciarci libertà e democrazia”.
Gli anni giovanili Fortunato Gennaro li ha spesi nella lotta di Liberazione dal nazi-fascismo; una Resistenza “semplice”, la sua, quella di un ragazzo nato al “Ponte Americano” di Messina e cresciuto a Bisconte, poi trasferitosi in Umbria con tutta la sua famiglia. E proprio in Umbria è stato componente della “Brigata Gramsci” fra il 1943 e il 1944, portandosi dietro la sua idea di giustizia sociale maturata in riva allo Stretto.
Con la stessa naturalezza ha proseguito la sua militanza democratica, come dimostra la tessera dell’Anpi di Messina sottoscritta nel 1948. Lascia il segno di un impegno che tocca alle generazioni successive proseguire contro qualsiasi forma di tirannia.
La biografia di Fortunato Gennaro, scritta dalla figlia Giuseppina:
“Terzogenito e unico maschio dei cinque figli avuti da Vincenzo Gennaro e Giuseppa Celi, Fortunato nasce a Messina l’8 ottobre del 1925. Cresce nel quartiere di insediamento post terremoto denominato ‘Ponte americano’, nei pressi di Viale Europa.
Il padre Vincenzo, già in tenera età orfano di padre, crebbe e si formò professionalmente nel convitto Cappellini di Messina (edificio che dopo successivi passaggi di destinazione attualmente ospita il liceo scientifico Archimede) dove acquisì, tra l’altro, le nozioni musicali che coltivò facendosi apprezzare da adulto come suonatore di clarino nella banda musicale di Messina, nell’ambito della quale rimase attivo per diversi anni fornendo il suo prezioso contributo.
Da padre di famiglia si era affermato nella professione artigianale di falegname ebanista, coltivando parallelamente la passione per la musica che riuscì in parte a trasmettere a Fortunato il quale, in gioventù, imparò da autodidatta a suonare la fisarmonica. Spesso interpellato per fornire l’apporto strumentale al fine di rallegrare le giornate di convivialità, di volta in volta promossa da alcune famiglie di rione Bisconte in occasione di festeggiamenti privati, grazie ai quali conobbe e si innamorò della bella Antonia, divenuta sua moglie dopo due anni di fidanzamento e rimasta sua compagna di vita per 63 anni.
Fin da bambino e nel rispetto delle oggettive possibilità, Fortunato venne coinvolto nella modesta ma attiva impresa familiare. Inoltre, nel suo piccolo, contribuì economicamente svolgendo l’attività di garzone presso una bottega di tessuti esercente in città.
Sul finire degli anni ’30, quindi in pieno regime fascista, la famiglia Gennaro con l’ancora piccolo Fortunato si trasferì dall’iniziale abitazione precaria della baracca di legno (nel cui sopralzo, costruito dallo stesso padre Vincenzo, si svolgeva la piccola attività imprenditoriale) in una delle casette popolari appena allestite nel rione Bisconte di Camaro Inferiore dove, a seguito delle sue manifeste idee libertarie, apertamente comuniste, papà Vincenzo venne ostacolato nel suo mestiere dal gerarca locale, risultando presto inviso al punto da fare autorizzare anche un’azione di pestaggio ai suoi danni.
Si può comprendere come le ritorsioni e l’osteggiamento professionale a cui venne assoggettato il padre andarono a ricadere sull’intera famiglia. Episodi che segnarono la sensibilità di Fortunato, che amava ed ammirava profondamente il padre, a seguito dei quali iniziò a maturare quel senso di rivalsa della giustizia civile e di rispetto per il prossimo che lo accompagnerà per il resto della vita.
Brillante studente di ragioneria, tanto da terminare il ciclo scolastico presentandosi all’esame di stato dopo avere unito in unica soluzione l’ultimo biennio, al termine del conflitto mondiale Fortunato avrà l’opportunità di impiegarsi da civile nella vicina caserma dell’Esercito Italiano “Gasparro”, definita Direzione Artiglieria, inizialmente in veste di tornitore meccanico nel ripristino delle armi utilizzate in guerra e destinate alle altre caserme militari di addestramento, ma presto verrà destinato alla gestione contabile della stessa caserma Gasparro.
Le due sorelle maggiori di Fortunato, Carmela e Anna, furono le prime a formare una loro famiglia. La prima rimanendo ad abitare al Bisconte con il consorte Angelo Accardi, l’altra seguirà in Umbria il marito Giocondo Magrelli subito dopo il loro matrimonio celebrato in Sicilia, poiché originario del piccolo Comune di Sant’Anatolia di Narco vicino a Cascia.
Nel 1941 per tutti, non meno per la famiglia Gennaro, i timori derivanti dall’avvento della Seconda guerra mondiale andavano inevitabilmente ad alimentare il disagio di sopravvivere agli avvenimenti, tanto più quando gli eserciti alleati entrarono in Italia iniziando l’offensiva aerea contro le truppe a terra dell’invasore tedesco.
Sin dall’inizio della guerra (la prima incursione avvenne nel luglio 1940) Messina fu un obiettivo primario, in quanto importante Piazza marittima, punto strategico circa i trasporti nel Mediterraneo quindi anche di approvvigionamento bellico e successivamente obiettivo finale dell’Operazione Husky, ovvero lo sbarco alleato in Sicilia.
Infatti dal 1940 al 1942 si ebbero le prime incursioni aeree programmate dall’aviazione inglese e che coinvolsero anche la città di Messina.
Si ricorderà, in particolare, che nell’estate del 1943 Messina fu interessata dal massiccio bombardamento, poi considerato il più consistente del conflitto mondiale in Italia.
Ma già le prerogative di attuazione delle strategie militari opposte indurranno i componenti della famiglia Gennaro ad allontanarsi dalla città natale, facendo decidere il capostipite Vincenzo ad accogliere la proposta del genero Giocondo e della figlia Anna di chiedere asilo al Comune di Cascia.
Richiesta che fu accolta così che gli otto componenti Gennaro, con Angelo marito di Carmela e la loro primogenita Agata di soli pochi mesi, furono accettati come sfollati dal Comune di Cascia, trovando riparo e conforto inizialmente in un umile ma prezioso alloggio temporaneamente messo a loro disposizione, distante pochi metri dal Municipio.
Tuttavia, appena fu possibile la famiglia si sposterà a Sant’Anatolia, lo stesso luogo dove già abitavano Anna ed il bonario marito antifascista appartenente alla diffusa radice dei Magrelli originari di quei luoghi, all’epoca già genitori del primo dei loro sei figli, Giuseppe.
I Gennaro rimarranno in Umbria da marzo 1942 a settembre del 1944. I maschi di famiglia con il capostipite Vincenzo, il figlio Fortunato ed il genero Angelo si occupavano dei modesti lavori che la singolarità del periodo storico poteva consentire, ma ben presto vollero aderire ai movimenti di resistenza locali partecipando alle iniziative della Brigata Gramsci in azione a Cascia.
Mossi dalla loro fede comunista, i tre si spostarono dalla casa di Sant’Anatolia verso i boschi della Valnerina, dove per diverso tempo parteciparono alle operazioni partigiane organizzate dai due jugoslavi che erano a capo della Brigata, di cui Fortunato ricorderà solo il nome di battaglia di uno di loro, detto Ivan.
La Brigata Garibaldi “Antonio Gramsci” fu particolarmente attiva durante la resistenza al nazifascismo nell’Italia centrale, tra Lazio, Umbria e Marche. I sette battaglioni della Brigata riuscirono a liberare, controllare territori e costituire ufficialmente una delle prime Repubbliche partigiane, tra le prime zone libere d’Italia.
Nasce ufficialmente nel febbraio del 1944 in seguito al radicamento e alla crescita del Battaglione Spartaco Lavagnini, dietro indicazioni di Celso Ghini (nome di battaglia “Naso“) inviato del CLN per il PCI come ispettore delle Brigate Garibaldi nel Lazio, in Umbria e nelle Marche. In quest’ultima regione è stato anche membro del comitato insurrezionale.
Il propulsore, prima commissario politico e poi comandante militare, fu Alfredo Filipponi nome di battaglia “Pasquale”, dirigente comunista di Terni, che guidò il gruppo fin dal primo nucleo costituitosi immediatamente dopo l’armistizio dell’8 settembre.
La Brigata era prevalentemente costituita da operai, contadini, militari sbandati, renitenti alla leva, ex prigionieri di guerra alleati e sovietici, nonché – di fondamentale importanza – da un nutrito nucleo di prigionieri jugoslavi evasi nel settembre 1943 dal carcere di Spoleto: Svetozar Lakovic detto “Toso“, il quale fu a lungo comandante militare nella Brigata, che arrivò a essere composta da un migliaio di partigiani divisi nei battaglioni Spartaco Lavagnini, Giovanni Manni, Guglielmo Morbidoni, Paolo Calcagnetti, Tito 1 e Tito 2.
Il Battaglione Spartaco Lavagnini è stato operativo tra la Valnerina e la zona di Cascia in Umbria.
Fortunato era ancora minorenne e forse il più giovane del gruppo, considerato che all’epoca la maggiore età era fissata ai 21 anni, per questo i responsabili della cellula Gramsci gli assegnarono fondamentalmente il ruolo di staffetta. Passando inosservato grazie alla sua giovane età, portava a destinazione ordini o informazioni, oltre ad osservare e riportare i movimenti delle formazioni nazifasciste eventualmente rilevate.
Tra i ricordi più drammatici e controversi della sua militanza, Fortunato ricorderà un episodio che riguardò due giovani esponenti della brigata poco più grandi di lui.
Alla ricerca di cibo, i due non ebbero scrupoli a fare razzia ai danni di una cascina che al momento era vuota, suscitando lo sdegno dei responsabili della brigata partigiana che, non appena se ne accorsero, dopo un breve consulto li condannarono alla fucilazione.
Tra gli altri anche Fortunato assistette all’esecuzione e ne rimase profondamente turbato.
Si sarà poi sempre chiesto se fosse stato davvero necessario arrivare ad un’azione così drastica di fronte ad un impulso dettato dalla necessità di sfamarsi.
Ma era pur consapevole che l’aspetto militaresco delle formazioni di liberazione rispondeva a rigide esigenze di sopravvivenza e credibilità, alle quali non ci si doveva sottrarre poiché si ritenevano implicite sia la protezione sia il rispetto dovuto ai contadini del posto, unite all’obbligo di non tradire la fiducia di coloro che spontaneamente consentivano ai partigiani di agire con sicurezza e collaborazione.
Successivamente ai grandi rastrellamenti nazifascisti della primavera del 1944, nell’Appennino centrale avvenne la difficile riorganizzazione della Brigata che richiese la divisione operativa dei reparti: i due battaglioni prevalentemente jugoslavi Tito 1 e Tito 2, che tra l’altro erano quelli che meglio avevano retto l’urto del rastrellamento grazie a una ritirata verso Norcia e Visso, continuarono ad agire autonomamente sul confine marchigiano, al comando di Svetozar Lakovic “Toso“; i battaglioni sotto il diretto comando di Alfredo Filipponi, andarono riorganizzandosi faticosamente sui monti più vicino a Terni, nei dintorni di Polino.
Tra il 1° e il 12 aprile del 1944 la zona libera e l’area operativa della Brigata Gramsci fu sottoposta a sistematici rastrellamenti ad opera dei reparti italo-tedeschi in ritirata.
Il nucleo di resistenza subì un duro colpo, rischiando il completo sbandamento.
I tedeschi in fuga dal sud, a seguito dello sbarco alleato, stavano risalendo lungo la dorsale italiana e in quella primavera del 1944, entrati nel territorio umbro presero a muoversi nelle zone meno visibili per evitare di essere avvistati dalle eventuali incursioni aeree.
In tale contesto il comandante della formazione in cui militavano Vincenzo, Fortunato e Angelo ordinò all’intero gruppo di abbandonare la macchia per tornare dalle loro famiglie nei centri urbani di provenienza, dove si pensava sarebbero stati al sicuro dalle rappresaglie nemiche che venivano perpetrate ai danni e alla vita dei partigiani.
Pertanto i tre familiari fecero ritorno a Sant’Anatolia con l’idea di essere stati risparmiati da una sicura cattura. Ma per loro il destino fu beffardo: nella fredda notte del 4 aprile 1944, un ridotto battaglione di tedeschi fece irruzione nel paese entrando nelle case per raccogliere il maggior numero possibile dei maschi ancora abili, adulti o ragazzi che fossero.
Li radunarono tutti nella piazza di Sant’Anatolia, requisirono i loro documenti di identità peraltro mai restituiti nell’intento di rendere più difficoltosa la circolazione sul territorio assediato, nel caso avessero tentato la fuga, e li caricarono su alcune camionette militari per poi utilizzarli da prigionieri ai lavori forzati, inizialmente per l’allestimento delle loro trincee di difesa man mano che si avvicinavano a Roma.
Anche Fortunato fu trascinato in piazza, per metà scalzo perché nella furia di requisire la manovalanza forzata non gli lasciarono il tempo di infilare entrambe le scarpe.
Tenuti sotto mira dal manipolo di soldati tedeschi ce ne fu uno piccolo di statura, in particolare, che per sua misera soddisfazione improvvisamente si prese la briga di puntare contro di loro un fucile mitragliatore, mimando il gesto di sparare e simulando contemporaneamente con la voce il fragore dell’arma.
A causa del suo innato temperamento sanguigno, Fortunato stava per scagliarsi con impeto contro il militare artefice dell’infelice iniziativa, ma provvidenzialmente una mano amica lo trattenne evitandogli così un epilogo di sicura morte.
Fu poi durante il trasferimento a Rieti che un gruppo di fascisti, comandati da un gerarca catanese, esaminò i prigionieri per riconoscere e segnalare eventuali partigiani tra di loro.
Ma per fortuna non erano in possesso di informazioni riguardanti quel gruppetto di prigionieri.
Trascorso qualche mese Fortunato e gli altri prigionieri furono destinati ad un primo programma di lavori forzati a Pratica di Mare, nella zona a sud di Roma dove i tedeschi preparavano l’offensiva in previsione degli sbarchi alleati.
Tra gli aneddoti di quel periodo Fortunato ricorderà un episodio di toccante umanità.
Una sera, al rientro dai lavori forzati, Vincenzo e Fortunato si trovavano nella camerata dove venivano stipati assieme ad altri prigionieri. Stavano terminando di consumare lo scarso cibo destinato per cena, seduti per terra l’uno vicino all’altro, quando il soldato tedesco di vedetta si avvicinò loro guardingo per chiedere a gesti se fossero padre e figlio. Avuta la risposta affermativa si allontanò per poi ritornare porgendogli un pezzo di pane nero, mimando il gesto di spartirselo tra loro senza farsene accorgere.
Da lì a poco fu predisposto il distacco dei prigionieri nella zona cruciale della Capitale, con destinazione Cinecittà, nei quali stabilimenti era stato approntato un campo di lavoro per prigionieri di guerra P.G. N. 122 che inizialmente ospitava sudafricani, inglesi e gollisti. In quell’ambito fu operativo un distaccamento di lavoro composto da civili, dipendente dal PG. 122 per conto dell’Ispettorato Telecomunicazioni e Assistenza Volo del Ministero dell’Aereonautica (in altri luoghi sappiamo che i prigionieri di guerra sono stati utilizzati come lavoratori coatti per lavori di riparazione delle piste bombardate degli aeroporti).
I nostri tre lavorarono infatti nell’aeroporto di Pratica di Mare istituito nel 1937 nella tenuta di Campo Ascolano e qualificato come campo di allenamento aereo. Negli anni che seguirono, l’aeroporto subì continue espansioni e nel dicembre 1942 diventò Scuola strumentale di volo.
Pochi mesi a seguire si rese necessaria una dislocazione parziale dei prigionieri relegati a Cinecittà, per poter fare fronte alle operazioni di ripristino delle strutture di comunicazione, come ponti o strade danneggiati dalle bombe, che rappresentavano percorsi di importanza strategica per i tedeschi che stavano battendo in ritirata.
Nella lista dei designati al trasferimento fu inserito, tra gli altri, solo Vincenzo Gennaro ma il figlio Fortunato si fece avanti al suo posto perché, d’istinto, ritenne che il padre avrebbe ancora potuto tornare a casa sano e salvo nella sua veste di capo famiglia, mentre lui non aveva responsabilità di quel genere. Tuttavia, conoscendo l’indole del padre, Fortunato si fece promettere che per garantire maggiormente il ritorno in famiglia avrebbe evitato di mettere in atto uno dei suoi soliti colpi di testa.
Ma così non fu, perché solo in seguito Fortunato seppe dal cognato Angelo della rocambolesca fuga che aveva dato l’opportunità al genitore di rientrare a Sant’Anatolia prima di loro due.
Assieme ad altri prigionieri, suocero e genero erano stati caricati su due distinti mezzi militari alla volta del campo di lavoro in programma per quel giorno quando Vincenzo, che era posizionato sui sedili posteriori, tentò la sorte approfittando di un rallentamento di marcia della camionetta sullo sterrato e, d’impulso, con un colpo di reni si gettò all’indietro cadendo dal mezzo.
Agì tanto rapidamente da cogliere di sorpresa tutti, compagni di sventura e aguzzini, dileguandosi in mezzo al campo di grano che cresceva alto fino a lambire i bordi della strada e dove si inoltrò facendo perdere le sue tracce, riuscendo ad evitare gli spari che i tedeschi gli scaricarono inutilmente addosso.
I prigionieri distaccati da Cinecittà, tra cui Fortunato, furono impiegati negli interventi di riparazione del ponte sul Tevere, nella zona della Magliana, nel quale fu approntata la ripavimentazione di fortuna applicata sul segmento crollato della struttura e poggiante su un basamento galleggiante di barconi affiancati uno dopo l’altro fino alla riva.
L’epilogo della prigionia per Fortunato si presentò qualche sera dopo, quando il gruppo di prigionieri fu trasferito per i lavori nei pressi di un altro ponte sul Tevere, all’altezza del colle Celio, dove si richiedevano interventi di minore portata.
I prigionieri erano stati disposti da poco sul sito di lavoroquando assieme agli aguzzini furono individuati dall’illuminazione dei bengala lanciati dall’esercito amico, che una volta evidenziato l’obiettivo favorirono l’incursione bellica degli aerei mossi contro l’insediamento tedesco.
Una delle bombe sganciate esplose toccando il terreno poco distante da Fortunato, creando lo smottamento di terreno che lo aveva investito, ricoprendolo e seppellendolo sotto i detriti di terra e asfalto sollevati dalla detonazione. Rimase stordito e assordato dall’onda d’urto dell’esplosione, i cui postumi gli avrebbero causato i successivi problemi di udito, fino a quando fu tratto in salvo da un altro prigioniero poco più grande di lui, forse sui vent’anni, che lo tirò fuori dalle macerie a mani nude. Fortunato non conosceva il suo nome, ricorderà solo che era poco più alto di lui e biondo ed era lievemente ferito ad un braccio. Da lui fu guidato a risalire una spalletta di terreno in prossimità del ponte che il bombardamento aveva distrutto e raggiunsero la Via Ostiense, percorrendola per allontanarsi velocemente dal pericolo di quel luogo, nella speranza di guadagnare la libertà. Appena furono al sicuro Fortunato aiutò l’amico di sventura a bendare alla meglio il braccio ferito, ma poiché il ragazzo non volle esporsi al rischio di essere nuovamente intercettato dai pattugliamenti nazifascisti nei pressi degli ospedali, decise di fermarsi da alcuni parenti di Roma che lo avrebbero assistito e medicato.
I due si accomiatarono a Roma, con la promessa che Fortunato avrebbe fatto una piccola deviazione del suo percorso di ritorno alla famiglia, che si augurava di ritrovare a Sant’Anatolia.
Per onorare la promessa fatta, Fortunato avrebbe raggiunto il paese aretino di Apoleggia dove abitavano i genitori di quell’angelo biondo venutogli in soccorso, per tranquillizzarli sulla sorte del figlio e riferendo loro che sarebbe stato pronto a tornare a casa appena si fosse rimesso dalla ferita. Fortunato ricorda la commovente gratitudine di quella coppia di contadini alle confortanti notizie riportate sul figlio al punto che, dopo averlo fatto rifocillare, se avesse loro consentito di sdebitarsi gli avrebbero anche fornito il loro asinello come mezzo di trasporto per coprire l’ultima giornata di percorso rimasta tra Apoleggia e Sant’Anatolia, seguendo la Via Salaria.
Di certo il mezzo di fortuna a quattro zampe gli avrebbe risparmiato di proseguire il cammino a piedi intrapreso due giorni prima, una volta lasciata Roma, ma l’asinello non dimostrava di essere molto più in forma di Fortunato che, per compassione e sicurezza, preferì lasciarlo ai proprietari.
Emaciato e malandato a causa delle vicissitudini sopportate in prigionia, prima di iniziare la strada di rientro alla casa umbra Fortunato usufruì di alcune indicazioni avute dalla rete informativa partigiana. Tra le altre aveva memorizzato l’indirizzo di un esercente romano, un certo Ciani, titolare di un laboratorio di calzature. Si presentò al negozio e fu accolto con umanità da quell’anima gentile che lo fece pulire e riposare, lo rifornì dell’abbigliamento di cui necessitava e, nel retro del negozio lontano da occhi indiscreti, lo fece sedere al tavolo per cibarsi di un piatto di cibo caldo.
Fortunato non aveva ancora lasciato Roma per iniziare il ritorno a Sant’Anatolia che era stato intercettato, assieme ad altri civili in transito lungo la Via Salaria, da un gruppo di militari tedeschi in difficoltà con un loro carro carico di munizioni.
Il manipolo di soldati esigeva dai passanti il necessario aiuto a sospingere quel convoglio, mentre altri commilitoni pattugliavano armati sui bordi della strada.
Suo malgrado era stato costretto ad unirsi alla manciata degli occasionali arruolati a favore di quel carico militare ma considerando, in cuor suo, che rischiava di essere riconosciuto tra i fuggitivi di quel giorno e che avrebbe potuto essere nuovamente catturato o, peggio ancora, temeva di perdere la vita nel caso fosse rimasto coinvolto in qualche scontro tra le parti.
Uscito indenne anche da quell’ultimo imprevisto, Fortunato aveva preso ad agire con maggiore precauzione e in questo stato d’animo evitava di attraversare i grossi centri abitati seguendo, invece, le strade periferiche. Tuttavia, quando la stanchezza prendeva il sopravvento, si azzardava a chiedere passaggi fortuiti che di solito gli venivano offerti facendolo salire a bordo dei mezzi agricoli in movimento nella zona.
Si era dimostrato un buon sistema, infatti non solo gli aveva concesso di non incorrere in brutti incontri, anzi, spesso era stato accolto nelle case dei contadini che incontrava lungo il suo cammino, probabilmente impietositi dalla sua giovane età e nel vederlo già palesemente segnato dagli eventi, considerato inoltre che stava affrontando da solo e a piedi un viaggio su territori a lui sconosciuti.
Si era ormai ai primi di giugno quando finalmente, a tre giorni dalla fuga da Roma, Fortunato si trovò in vista della meta nella provincia perugina, dove aveva potuto riabbracciare tutti i familiari rimasti in ansia per la mancanza di notizie che lo riguardassero, tra loro il padre ed il cognato Angelo che, ciascuno per proprio conto, erano riusciti a guadagnare la libertà.
Dopo la dichiarazione di Armistizio dell’8 settembre 1944 il padre Vincenzo convinse Fortunato a seguirlo a Roma, dove sperava che nella grande città avrebbe trovato lavoro.
Ma arrivati a poca distanza dal cuore della Capitale, in zona Cecchignola, assieme ad altre persone dovettero rifugiarsi all’interno di un cinema in disuso, poiché intorno a Roma continuavano gli scontri armati delle forze alleate e della popolazione in rivolta contro i nazifascisti.
Papà Vincenzo desistette dall’idea che lo aveva indotto a muoversi da Sant’Anatolia avendo considerato erroneamente che la città fosse ormai sicura, di conseguenza non restò loro che fare ritorno dai familiari rimasti in Umbria.
La permanenza dei Gennaro, famiglia di messinesi che durante il secondo conflitto mondiale aveva scelto di andare a Cascia per fuggire dai bombardamenti a cui era sottoposta la loro città di origine, sarebbe durata circa due anni prima che il nutrito nucleo di sfollati nella provincia di Perugia facesse ritorno a Messina.
In cerca di migliori opportunità di lavoro che invece scarseggiavano nella ferita Valnerina, nel percorso a ritroso si unì a loro anche il biondo e bonario Giocondo Magrelli, il ventiseienne marito umbro di Anna che era una delle sorelle maggiori di Fortunato, grazie al quale la famiglia al completo di quegli anni ebbe l’opportunità di fruire della prima accoglienza fornita dal Comune di Cascia. Fortunato ricorderà che il cognato Giocondo, pur essendo antifascista, non aveva potuto prendere parte alle azioni partigiane poiché sfortunatamente era rimasto parzialmente invalido, a causa di un incidente occorsogli durante il lavoro nei campi. Inoltre aveva la responsabilità genitoriale della imminente nascita di Giuseppe, il primo dei sei figli avuti con Anna.
Nell’immediato dopo guerra le prospettive di riprendere oppure ottenere possibilità di lavoro scarseggiavano ovunque nel territorio nazionale, ancora assoggettato alla grave destabilizzazione apportata dal conflitto mondiale.
Il padre Vincenzo dovette abbandonare il suo lavoro di artigiano del legno riuscendo a farsi assumere dall’Azienda Siciliana di Trasporti come bigliettaio in servizio nei mezzi circolanti a Messina, mentre Fortunato trovò impiego in veste civile presso la Direzione Artiglieria della Caserma ‘Gasparro’, nello stesso rione Bisconte in cui era tornato assieme ai familiari.
Nel dicembre del 1949, a ventiquattro anni d’età sposò la diciannovenne Antonia Capilli e nell’arco di sei anni ebbero i quattro figli maschi.
Ma trascorsi otto anni l’indole ribelle alle prevaricazioni ed ai soprusi costò a Fortunato l’allontanamento punitivo, mascherato da esigenze di servizio, verso un’altra caserma della cittadina di Alba, in Piemonte.
Il provvedimento fu il frutto dell’arroganza di un alto graduato in servizio presso la caserma Gasparro che, nonostante Fortunato fosse un dipendente amministrativo civile, quindi non un militare suo diretto sottoposto, non aveva tollerato l’orgogliosa refrattarietà a mostrargli la riverenza che pretendeva da chiunque lo incontrasse mentre, tronfio dell’autorità rivestita, il milite non usava il benché minimo riguardo nei confronti del prossimo, nemmeno per rivolgere il comune saluto.
Fortunato venne a sapere che il graduato autoritario, a conoscenza dei suoi trascorsi di militanza partigiana e della sua fede comunista, inizialmente aveva cercato invano di convincere i responsabili della caserma a farlo licenziare come individuo non accetto.
Ma non fu assecondato, perché Fortunato si era dimostrato un lavoratore serio e affidabile, inoltre era un padre di famiglia.
Allora il graduato passò al contrattacco, mandando alcuni dipendenti della caserma a chiedere informazioni nel rione dove risiedeva con i congiunti, a quanto pare nell’intento di indagare e rilevare tangibili difetti in merito al suo comportamento morale nei riguardi della moglie e dei figli.
Ma il militare non poté fare affidamento neppure su questo stratagemma, poiché Fortunato era benvoluto e stimato da tutti gli interpellati.
Per ultimo, volendolo danneggiare a tutti i costi in segno punitivo, ottenne di fare trasferire Fortunato il più lontano possibile, facendolo distaccare al Deposito Misto dell’unica caserma militare di Alba, nell’esercizio di un’attività omologa a quella di partenza.
La buona stella di Fortunato fece sì che si trovasse a proprio agio nel comune piemontese e dopo pochi mesi fu raggiunto dalla moglie e dai figli, il più grande dei quali aveva solo sette anni.
Tuttavia, l’esigenza di garantire alla famiglia una vita il più possibile dignitosa gli suggerì di prepararsi presentandosi ad un concorso indetto per i dipendenti pubblici, vincendolo con destinazione all’Ufficio Distrettuale delle Imposte Dirette di Alba, del quale era però in programma la soppressione locale.
Con rammarico la famiglia dovette lasciare la cittadina nel marzo del 1959, facendo ritorno a Messina dove Fortunato fu ripreso a lavorare presso la caserma Gasparro.
Vale la pena ricordare un ultimo aneddoto che ha sempre a che vedere con i controsensi con i quali ha avuto a che fare Fortunato, chiaramente riconducibili ad una certa ingerenza rivolta all’impronta ideologica che meglio l’aveva formato durante il suo impegno di partigiano, incoerenze emerse nel dopo guerra con l’episodio del trasferimento ad Alba e poi con due successivi spunti verificatisi negli anni ‘60.
Legato nostalgicamente alla sua terra di origine, nel 1967 per Fortunato si era aperta la possibilità di fare domanda e richiedere il trasferimento di lavoro da Genova a Messina.
Pensando fosse opportuno sollecitare il disbrigo della sua pratica, decise di recarsi direttamente a Roma presso l’Ufficio Ministeriale preposto dove espose le proprie ragioni ad un cortese operatore e questi, espletate le ricerche di rito, riferì che in breve tempo avrebbe ricevuto l’auspicato accoglimento di trasferimento. Tuttavia ritenne giusto avvisarlo che nell’esaminare il fascicolo personale dove aveva rinvenuto il dispositivo di mobilitazione in attesa di essere spedito, aveva notato un documento dove Fortunato Gennaro era elencato tra i soggetti pericolosi per motivi ideologici.
Purtroppo l’esperienza di lavoro presso l’Ufficio Doganale di Messina, dove ottenne di lavorare, risultò deprimente: sempre a seguito della sua intransigenza a tutti i generi di sotterfugio attuati per tornaconto personale e restio a farsi coinvolgere in azioni scorrette, che in quel settore non mancavano, fu presto emarginato dal ‘branco organizzato’ che assieme al responsabile accondiscendente lo relegò ad un’attività lavorativa marginale, costringendolo nell’impossibilità di esprimere le sue buone capacità operative. Oggi si parlerebbe di mobbing.
Deluso e mortificato, nemmeno un anno dopo Fortunato decise che non poteva più seguire quel sogno divenuto quasi un incubo e avendone la possibilità tornò sui suoi passi, chiedendo ufficialmente di farsi reintegrare negli uffici di Genova.
Alla fine del 1968 tornò in Liguria con tutta la famiglia e fu accolto con calore dai colleghi che lo conoscevano e lo apprezzavano, compreso il dirigente che però, dopo avergli dato il bentornato, si sentì in dovere di consigliargli di esimersi dal fare eventuali considerazioni politiche sul luogo di lavoro. Discussioni che comunque Fortunato non era avvezzo fare, tantomeno in quegli ambienti.
Attualmente Fortunato ha compiuto 99 anni e dall’estate del 2022 è ospite di una pregevole casa di riposo posta sulle colline del messinese.
Se fosse stato possibile non avrebbe mai voluto lasciare il territorio delle sue origini, ma per esigenze di attività lavorativa più consona alle sue attitudini ed al mantenimento della famiglia, in pratica dal 1962 si era stabilito nella città portuale di Genova con la moglie Antonia ed i loro cinque figli Vincenzo, Pasquale, Antonino, Nicolò e Giuseppina.
È rimasto nel capoluogo ligure fino a quando ha accolto di buon grado la proposta fatta dalla ultimogenita, con la quale abitava dopo essere rimasto vedovo nel 2012, di tornare nella loro terra di origine. Così è andata che, favorito dalla buona salute di cui godeva compatibilmente con l’età avanzata, nel dicembre del 2019 Fortunato ha affrontato assieme alla figlia la realizzazione del comune progetto di recupero del tempo trascorso, per necessità, lontano dalla Sicilia.
Dell’impegno profuso nelle linee della resistenza civile in Umbria a Fortunato ne rimane tutt’ora indelebile memoria, sia pur ormai frammentata ma mai rievocata senza il dolore risvegliato dagli avvenimenti vissuti in prima persona nel corso di un periodo storico condiviso in tutto territorio nazionale, appartenente ai comuni ricordi che dovrebbero essere trasmessi generazionalmente, a monito futuro.
Oltre agli attestati di riconoscimento ufficiale della militanza partigiana, assegnati a lui ed ai suoi due familiari Vincenzo e Angelo ormai defunti, per ciascuno la medaglia d’argento al valore militare è stata consegnata nel periodo post-bellico grazie alla segnalazione meritoria fatta dalla città di Cascia alle autorità ministeriali della Capitale.
Infine Fortunato Gennaro ha avuto il piacere della visita richiesta dalla rappresentanza della sezione A.N.P.I. di Messina che, venuta a conoscenza del suo ritorno nella città natale, ha desiderato conoscerlo per partecipargli la gratitudine verso il contributo apportato nella lotta contro il nazifascismo in Italia, ne ha raccolto la testimonianza diretta e lo ha omaggiato di una targa a lui dedicata e consegnata di persona in occasione del suo 99° compleanno”.