Maria Carta nella etnia Sarda. Tracciati di letteratura tradizione e lingua

A 90 dalla nascita e a trenta dalla morte, il mito resta un arcaico nel linguaggio rituale che diviene, canto. Per Maria Carta nell'incontro tra etnia sarda e realtà antropologiche, la sua isola rimane un viaggio...

      Incontro tra etnia sarda e realtà antropologiche. Un Mediterraneo che si legge, si ascolta, si avverte all’interno di immagini e visioni in cui il mare e l’isola sono riferimenti certi nella metafora delle partenze e dei ritorni. Modelli ed eredità etniche sono nel vissuto nel tracciato della ricerca di Maria Carta (Siligo, 24 giugno 1934 – Roma, 22 settembre 1994).  Ricordi e linguaggi sono intrecci interscambiabili. Un penetrare la parola abitando la parola stessa. Nei Canti di Maria Carta  l’intreccio  tra tradizione italiana e linguaggio sardo delinea un percorso in cui lo scavo etno – linguistico non definisce una rappresentazione ma sottolinea il “popolare” che è parte fondante nei modelli etnici.

      Nel “Canto rituale” di Maria Carta c’è una spinta che si avverte su due versanti. Quello della proposta di una vera e propria cultura popolare attraverso parametri in cui il sentimento dell’appartenenza è un graffio profondo nella civiltà di un popolo che si porta dietro un “primitivismo” quasi ancestrale che è dovuto al luogo e alle eredità che esprime un luogo non luogo. Quello linguistico che ha ramificazioni articolate all’interno  di un’area geografica che è quella chiaramente del Mediterraneo ma la Sardegna , come tutta la cultura sarda, risente di influssi che tengono insieme un intreccio tra Oriente ed Occidente. Un canto rituale nel destino del mito.

      Maria Carta sia nelle sue canzoni che nel suo testo poetico (la contaminazione è fondamentale) si avverte la trascrizione di una geremia che sollecita il cantico non favolistico ma funebre. Il rituale in fondo diventa uno scavo nella coscienza della civiltà sarda ma nello stesso tempo accanto alle matrici di derivazione vi sono le forme autoctone che insistono appunto come identità del luogo.

      Il “Canto rituale” di Maria Carta è un viaggio e viaggiando è come se recuperasse i sistemi di una letteratura, in cui la terra madre rappresenta la storia di un popolo come ethos ma anche come lingua. Sembra un andare nel regno dei morti ma questo andare diventa anche un ritornare perché, ricordando o ridefinendo i personaggi che sono nell’altrove, il presente esistenziale si fa costantemente contemporaneità e la proposta letteraria e poetica è dentro il processo esistenziale in un rapporto tra terra – memoria – rito. È  come se entrasse in quel viaggio di andata e ritorno che però ha delle valenze tragico simboliche.

      Il canto, così, diventa, una litania e la funzione di quella cultura barbaricina è tutta intrisa di sguardi pesanti, di parole robuste, di accenti drammatici. Un canto fatto di storie che raccontano la vita di uomini e di donne che hanno abitato l’isola e l’hanno vissuta come metafora di una “Spoon river”, ovvero alla Lee Masteers.

      Lingua e fenomeni antropologici (etno – poetici) sono un unicum che caratterizza il “Canto rituale” di Maria Carta come in questi tre versi dal testo dal titolo “Bigia de riu”: “Amore fadadu/fuggito lei gli ha fatto fattura”.

      L’ethnos che campeggia ha un profondo radicamento, il cui legame è tutto giocato tra lo strumento della parola e quindi l’uso del linguaggio e il contenuto. Termini come: “De sa catighera”, “la pupìa”, “fadada”, “sotto le pale de sa catighera” ci riportano a un mondo mitico che soltanto nel linguaggio lirico sacrale è possibile catturare. I tre concetti dell’etno-storia dell’etno-linguistica e dell’etno-letteratura sono ben definiti proprio nella ritualità del suo linguaggio.

      Il mito, comunque, resta un arcaico nel linguaggio rituale che si fa, appunto, canto. Ed ecco ancora le ramificazioni di una antropologia della penetrazione nel tempo: “Ai bagliori del fouco il mio libro/illustrato fissavano i nudi greci/poi Madau vide Mosè/le sette piaghe d’Egitto mise il pugno sul libro”(Da “Mattia Madau”). Si nota l’evidente rimescolio del raccordo tra cultura e lingua.

      Il viaggio continua tra i destini di una terra e i “rimitanos”, ovvero i diseredati. E in questa terra di civiltà assopite c’è sempre una bambina che sembra avere le mani di vento. Ci sono i segreti e i ricordi, le madri defunte che con la loro ombra raccontano il tempo della storia nel tempo del presente non dimenticando “i piedi scalzi dell’infanzia”. È come se si entrasse sempre nell’anima di un paese: “Entro stanotte in questo paese/che ha luci gialle stravaganti/è gente all’antica vestita di bianco”(Da “Efisio Concas”).

      Il canto (o il cantico) di Maria Carta è un attraversare il senso di un tempo mascherato ma mai scomparso che la ritualità del canto porta sulla scena con il suo battuto dentro un “bidda beru” con le “boghe” che provengono da lontano. E così il paese vero, quello vissuto da Maria e quello che noi abbiamo tra i segni dei ricordi, si ascolta nella memoria metaforizzata dal linguaggio e dal ritmo.

      Nei testi (che siano essi musicali, poetici, recite in italiano o in sardo: un linguaggio totale) di Maria Carta il tempo è una espressione di quella memoria che riporta sullo scenario ricordi infiniti, ricordi indelebili di un paese e di una infanzia. L’isola non solo come metafora, la sua Sardegna non come luogo geografico, il mare non come senso di un viaggiare. Il tutto in una identità che sa di nostalgia ed eredità. La tradizione ma anche il quotidiano nella poesia – nostalgia. Una metafora che comunque si incontra con la realtà. Per Maria Carta la sua isola resta un viaggio.

  

Pierfranco Bruni è nato in Calabria e vive tra Roma e la Puglia. Scrittore, poeta, italianista e critico letterario, è direttore archeologo presso il Ministero della Cultura. Esperto di Letteratura dei Mediterranei, vive la letteratura come modello di antropologia religiosa. Ha pubblicato diversi testi sulla cristianità in letteratura. Il suo stile analitico gli permette di fornire visioni sempre inedite su tematiche letterarie, filosofiche e metafisiche. Si è dedicato al legame tra letteratura e favola, letteratura e mondo sciamanico, linguaggi e alchimia. Ha pubblicato oltre 120 libri, tra poesia saggistica e narrativa. È presidente del Centro Studi e Ricerche “Francesco Grisi”. Ricopre incarichi istituzionali inerenti la promozione della cultura e della letteratura. Recentemente, con decreto del Ministro della Cultura, è stato nominato Presidente della Commissione per il conferimento del titolo di “Capitale italiana del Libro 2024“. @riproduzione riservata

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