Il fuoco metafora e romanzo del D’Annunzio che amò la divina

È chiaro che in D'Annunzio si ascolti il Nietzsche conflittuale con Wagner e nella Duse tutta la sue conoscenze della letteratura russa. Già con "Il trionfo della morte" D'Annunzio si era inserito in tale contesto, ma è con il "Fuoco" che esplode con una forma manniana ponendo una strada aperta per l'uomo della crisi sul piano letterario e filosofico. Dal volume di Pierfranco Bruni *

Marilena Cavallo

Cosa fu realmente il fuoco per la divina in D’Annunzio? Romanzo e metafora
“Il fuoco è un’opera, nel suo genere, perfettamente compiuta. L’ho riletta or ora: la sua bellezza, il suo potere d’incanto mi sono apparsi così evidenti come il primo giorno” (Henry de Montherlant).
Il fuoco è una condizione nell’opera dannunziana che caratterizza quella forma metaforica che trova la sua esaltazione nell’amore per Eleonora Duse, anzi nell’amore tra Eleonora e Gabriele. Ma è qualcosa che va oltre e che lo si registra nei suoi notturni. Il fuoco è un mio panico? È l’estrema passione che diventa sensualità onirica.
Eleonora è quella Undulna alcionica che vibra tra le corde pararidisieche che ha voce destino. Eleonora è destino e metafora nel cerchio delle voci che si ascoltano nel gioco del linguaggio tra decadente desiderio e magica iniziazione al canto di un amore durato dieci anni per la cronaca ma pere loro vite una intera esistenza dal 1894. Dopo la morte della Divina, 1924, D’Annunzio non smetterà di amarla nonostante i diversi conflitti sia sentimentali che di lavoro.
Non c’è dubbio che D’Annunzio costruì un vero e proprio genere teatrale intorno alla Duse. Il teatro poetico fatto di pause e di sguardi nonostante il linguaggio nato sempre da una visione lirica.
Questo significa che con D’Annunzio e Duse il realismo è superato e irrompe sulla scena la teatralità tragica che ha le sue fondamenta, comunque, nella dimensione del Saul dell’Alfieri. Manzoni è solo esperienza perché la storia non fa più il teatro e non sarà protagonista principale nella letteratura, soprattutto se si pensa a Svevo e Pirandello. Il dramma personale coinvolge tutti i personaggi e se il tragico in Pirandello tocca l’ironia con Duse e D’Annunzio di entra nel drammatico.
È chiaro che in D’Annunzio si fa ascoltare il Nietzsche conflittuale con Wagner e nella Duse tutta la sua esperienza che proviene anche dalle sue conoscenze della letteratura russa. Già con “Il trionfo della morte” D’Annunzio si era inserito in un tale contesto, ma è con il “Fuoco” che esplode con una forma manniana ponendo una strada aperta per l’uomo della crisi sia sua piano letterario che filosofico.

Ciò lo si intravede nel “Notturno” dove ancora una volta la sintesi rappresentativa resta Eleonora – Ghisola. Cosa è stata Eleonora nel suo magico tragico senso del vitalismo?
Ecco: “Sotto l’immobile fuoco dei cieli estivi, ella pareva senza palpito e senza respiro, morta nelle sue verdi acque; ma non m’ingannò il mio sentimento quando io la indovinai travagliata in segreto da uno spirito di vita bastevole a rinnovare il più alto degli antichi prodigi”.
Una interpretazione che resta nelle pagine del suo romanzo frammentario dei cartigli. Eleonora non è assolutamente la donna “dispersa” del “Fuco”.


È la donna che da divina diventa Dea. “Tu esalti la mia forza e la mia speranza, ogni giorno. Il mio sangue aumenta, quando ti sono vicino, e tu taci. Allora nascono in me le cose che col tempo ti meraviglieranno. Tu mi sei necessaria”. Necessaria. Dunque? Certo. È il romanzo in cui Eleonora viene “svestita”, metafora fondamentale, ma è anche il romanzo della esaltazione dell’amore.
Il discorso costante come discorsività narrante sembra un nuovo incipit. Come in questo caso: “Stringiti a me, abbandonati a me, sicura. Io non ti mancherò e tu non mi mancherai. Troveremo, troveremo la verità segreta su cui il nostro amore potrà riposare per sempre, immutabile. Non ti chiudere a me, non soffrire sola, non nascondermi il tuo tormento! Parlami, quando il cuore ti si gonfia di pena. Lasciami sperare che io potrei consolarti. Nulla sia taciuto fra noi e nulla sia celato. Oso ricordarti un patto che tu medesima hai posto. Parlami e ti risponderò sempre senza mentire. Lascia che io ti aiuti, poiché da te mi viene tanto bene!”.

Ebbene, il Gabriele che si vive in questo romanzo è il poeta delle contraddizioni, ma alla base c’è la passione. Una passione lacerata in cui la Divina è appunta una Dea che sembra ascoltare da uno scoglio che ascolta l’onda che sbatte negli intagli. Una donna mistero e le frasi in cui di lei si lacerarano emozioni e sensazioni sono parte integrante di una storia. È il diario di un amore non posto davanti allo specchio, ma in un cuore scoppiettante di luna e di vento come i giorni della Capponcina.
Quella luna che “incantava e attirava la pianura com’ella incanta e attira il mare: beveva dall’orizzonte la grande umidità terrestre, con una gola insaziabile e silenziosa. Ovunque brillavano pozze solinghe; si vedevano piccoli canali argentei riscintillare in una lontananza indefinita tra file di salci reclinati. La terra pareva perdere a ora a ora la sua saldezza e liquefarsi; il cielo poteva mirarvi la sua malinconia riflessa da innumerevoli specchi quieti. E di qua, di là, per la scolorata riviera, come i Mani d’una gente scomparsa le statue passavano passavano”.
Una delle chiavi di lettura è certamente la bellezza. Vissuta soffocata soffermeta. Ma il fuoco è una passione e una tragedia come egli stesso sottolinea: “…Ma con qual virtù potrò io mai comunicare a chi m’ascolta questa mia visione di bellezza e di gioia? Non v’è aurora e non v’è tramonto che valgano una simile ora di luce su le pietre e su le acque. Né subito apparire di donna amata in foresta di primavera è inebriante così come quella impreveduta rivelazione diurna della Città eroica e voluttuosa che portò e soffocò nelle sue braccia di marmo il più ricco sogno dell’anima latina”.
Quella città eroica che era la “città morta” diventa una città in cui il mito è un dialogo proprio con il divino. Il fuoco è divino. La grecità è profonda come è tale la ovidiana onirica Bellezza del vivere l’amore. Tutto questo non non può che essere teatralizzazione nel tempo della recita. Ma Eleonora e Gabriele non sono forse stati una recita nella vita e nella morte?
Forse “Il fuoco” aveva già come profezia – preveggenza trovato il suo incipit nel “Trionfo della morte” quando ancora Eleonora non era nella sua vita. Ma i profeti come D’Annunzio riescono a leggere oltre? Probabile. Ma c’è un concetto esemplare nel romanzo precedente che è aprisse la sua storia con Eleonora e che segnerà tutto il destino – amore tra Eleonora e Gabriele. Ovvero: “Io penso che da morta ella raggiungerà la suprema espressione della sua bellezza. Morta”. È stato così. Quel busto velato della Divina è l’espressione onirica e magica che non è mai finito. Eleonora non divenne musa. Lo fu sempre per D’Annunzio.

Pierfranco Bruni è nato in Calabria.
Archeologo direttore del Ministero Beni Culturali, presidente del Centro Studi “Grisi” e già componente della Commissione UNESCO per la diffusione della cultura italiana all’estero.
Nel 2024 Ospite d’onore per l’Italia per la poesia alla Fiera Internazionale di Francoforte e Rappresentante della cultura italiana alla Fiera del libro di Tunisi.
Per il Ministero della Cultura è attualmente:

• presidente Commissione Capitale italiana città del Libro 2024;

• presidente Comitato Nazionale Celebrazioni centenario Manlio Sgalambro;

• segretario unico comunicazione del Comitato Nazionale Celebrazioni Eleonora Duse.
È inoltre presidente nazionale del progetto “Undulna Eleonora Duse”, presidente e coordinatore scientifico del progetto “Giacomo Casanova 300”.

Ha pubblicato libri di poesia, racconti e romanzi. Si è occupato di letteratura del Novecento con libri su Pavese, Pirandello, Alvaro, Grisi, D’Annunzio, Carlo Levi, Quasimodo, Ungaretti, Cardarelli, Gatto, Penna, Vittorini e la linea narrativa e poetica novecentesca che tratteggia le eredità omeriche e le dimensioni del sacro.
Ha scritto saggi sulle problematiche relative alla cultura poetica della Magna Grecia e, tra l’altro, un libro su Fabrizio De André e il Mediterraneo (“Il cantico del sognatore mediterraneo”, giunto alla terza edizione), nel quale campeggia un percorso sulle matrici letterarie dei cantautori italiani, ovvero sul rapporto tra linguaggio poetico e musica. Un tema che costituisce un modello di ricerca sul quale Bruni lavora da molti anni.

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