
Pierfranco Bruni
Non è facile misurarsi con Bianca Garufi. Non è affatto semplice raccontarla, cercando di percepirne gli elementi streganti. Quei sottosuoli dostoevskijani insiti in lei. Sovente evade dalla realtà, pur restando nel quotidiano, scavando in “quel gorgo muto” nel quale si era rinchiuso Cesare Pavese.
È impossibile comprendere Bianca Garufi senza la figura di Cesare Pavese, che in lei predomina. Lo si avverte nelle poesie, nella quali convivono termini prettamente pavesiani, ma in special modo nel passaggio tra “Fuoco Grande” e “Il Fossile”. Bianca prosegue il romanzo lasciato incompiuto a causa della morte di Pavese, mutuando dal poeta scrittore il linguaggio, il concetto di mito e di rito e creando una straordinaria continuità tra il personaggio maschile e quello femminile. Leggendo “Il Fossile” non si avverte nessuna separazione tra la sua scrittura e quella di Pavese, rappresentanti due personaggi in una città, come Maratea, in cui si vive tutta la magia antropologica del Sud. Bianca Garufi si sdoppia (divenendo a volte Cesare, per poi tornare nei suoi panni) nel proseguire l’alternanza dei capitoli di un romanzo che mette in scena una incredibile abilità di metamorfosi creativa e letteraria. Mi stupisco del fatto che la casa editrice Einaudi, presso la quale entrambi lavoravano, non abbia pensato di unire “Il Fossile” con “Fuoco Grande”, uno dei romanzi portanti di Pavese, la cui stesura era stata intrapresa poco dopo il suo incontro con Bianca Garufi a Roma.

È grazie a Pavese se Bianca riuscirà ad analizzare il vocabolario e tutto il processo letterario attraverso il cannocchiale di Jung. Pavese non era un freudiano. Egli scopriva i sottosuoli dell’anima alla maniera di Illich. Bianca ha scritto diversi saggi sulla psicoanalisi dell’anima, allontanandosi dal concetto di “Totem e tabù”, dal complesso di Edipo, per soffermarsi sulla parola intesa come creatività e mai come relativismo.
Non è soltanto le letteratura che entra in Bianca Garufi, ma anche tutto quel contesto appartenuto a Pavese. In “Fuoco Grande” si incontra spesso la parola “rupe”, così come ne “Il Fossile” e nella sua poesia. Il concetto di rupe ha la sua origine nella visione saffica appartenente a una formazione greca in cui il senso del tragico e del suicidio è molto presente. La Garufi si dedicherà in seguito alla filosofia. Si laurea, infatti, in Filosofia specializzandosi in Psicoanalisi, molto probabilmente per sfuggire a quel senso del tragico nel quale si era tuffato Pavese. Qualche mese prima che Pavese morisse, Bianca affida al suo diario quel senso di rammarico per non essere riuscita a venirgli in aiuto scrivendo: “Ora che sarei stata capace di aiutarti, non ti sei rivolto a me”. Pavese, nell’ultima notte vissuta all’albergo Roma di Torino, cerca diverse persone tra cui Natalia Ginzburg, ma non Bianca. Era evidente che la considerasse il suo “doppio”.
In “Fuoco Grande” e ne “Il Fossile” si assiste allo scardinamento della letteratura calviniana. Anche Bianca Garufi non amava Calvino, ed esattamente come Pavese, non sopportava Natalia Ginzuburg considerata una falsa moralista. Un legame stretto, il loro, nato all’interno di un processo letterario e analitico. La letteratura, in questo caso, assume una specificità enorme in quanto subentra un concetto che amo spesso richiamare, quello di “letteratura metafisica”. Pavese, nel romanzo “La casa in collina”, dà vita a un romanzo metafisico e Bianca Garufi con “Il Fossile” compie il medesimo percorso all’interno di una metafora dell’anima che diviene “metafisica dell’anima”.
Con Bianca Garufi non esiste una letteratura “pura” sulla quale la critica letteraria possa soffermarsi. Critica letteraria che non ha mai compreso né Pavese né la Garufi, perché entrambi erano “oltre”. Bianca Garufi è andata “oltre” lo stesso Pavese. Dopo averne assorbito la lezione, si è mossa in direzione di un contesto che lega letteratura e filosofia. Si laurea con una tesi su Jung, in un contesto psicoanalitico che confluirà in una visione psico-filosofica.
Il senso del tragico legato al concetto di gorgo, rupe e morte, è centrale in Pavese e viene mutuato dal senso del tragico di Nietzsche, da lui tradotto. Un disegno della continuità pavesiana che la Garufi ripristina adottando “parole chiave” miranti a mettere in luce l’animo femminile. Non è, infatti, un caso che i principali personaggi pavesiani siano tutti femminili. Pavese ha scardinato un tipo di letteratura assegnando un ruolo specifico al personaggio femminile ad iniziare dal libro “Il carcere”, nel quale i due personaggi centrali sono Concia ed Elena, fino all’ultimo suo libro pubblicato in vita, “La luna e i falò”, che termina con il personaggio simbolico di Santa arsa viva. Qui il senso del mito è forte. L’altro concetto che campeggia in entrambi è il concetto di fuoco alla quale viene data una importante interpretazione.
“La luna e i falò” conclude il ciclo pavesiano.
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Pierfranco Bruni è nato in Calabria.
Archeologo direttore del Ministero Beni Culturali, presidente del Centro Studi “Grisi” e già componente della Commissione UNESCO per la diffusione della cultura italiana all’estero.
Nel 2024 Ospite d’onore per l’Italia per la poesia alla Fiera Internazionale di Francoforte e Rappresentante della cultura italiana alla Fiera del libro di Tunisi.
Per il Ministero della Cultura è attualmente:
• presidente Commissione Capitale italiana città del Libro 2024;
• presidente Comitato Nazionale Celebrazioni centenario Manlio Sgalambro;
• segretario unico comunicazione del Comitato Nazionale Celebrazioni Eleonora Duse.
È inoltre presidente nazionale del progetto “Undulna Eleonora Duse”, presidente e coordinatore scientifico del progetto “Giacomo Casanova 300”.
Ha pubblicato libri di poesia, racconti e romanzi. Si è occupato di letteratura del Novecento con libri su Pavese, Pirandello, Alvaro, Grisi, D’Annunzio, Carlo Levi, Quasimodo, Ungaretti, Cardarelli, Gatto, Penna, Vittorini e la linea narrativa e poetica novecentesca che tratteggia le eredità omeriche e le dimensioni del sacro.
Ha scritto saggi sulle problematiche relative alla cultura poetica della Magna Grecia e, tra l’altro, un libro su Fabrizio De André e il Mediterraneo (“Il cantico del sognatore mediterraneo”, giunto alla terza edizione), nel quale campeggia un percorso sulle matrici letterarie dei cantautori italiani, ovvero sul rapporto tra linguaggio poetico e musica. Un tema che costituisce un modello di ricerca sul quale Bruni lavora da molti anni.
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