Immagini: Marion Post Wolcott – Masahisa Fukase
Bologna – La Fondazione MAST a Bologna presenta una nuova mostra tratta dalla propria collezione di fotografia industriale.
Sessanta autori dagli anni venti a oggi mostrano con oltre cento opere – alcune costituite da decine di scatti – il dirompente potere espressivo del linguaggio fotografico nei suoi molteplici significati.
La mostra LA FORZA DELLE IMMAGINI raccoglie una vastissima selezione di scatti provenienti dal mondo della produzione, una pletora di impressioni, un profluvio di visioni dell'industria pesante e di quella meccanica, della digitalizzazione, della società usa e getta.
Lo sguardo di oltre sessanta fotografi ci conduce attraverso il regno della produzione e del consumo, aiutandoci a sviluppare nuove modalità di visione. L’esposizione mette a fuoco gli ambienti che caratterizzano il sistema industriale e tecnologico, tocca questioni chiave di natura sociale, politica, collettiva ma, più che i fatti puri e semplici, le immagini cercano di raffigurare nessi e riferimenti articolati, profondi, presentando all'osservatore realtà complesse, che determinano anche un coinvolgimento emotivo e sensoriale. L'universo iconografico dell'industria e del lavoro, della fabbrica e della società cui questa mostra dà vita è permeato dall'idea della pluridimensionalità: molti livelli diversi e linee temporali che corrono parallele o si incrociano.
La mostra propone le opere di fotografi e artisti tra cui Berenice Abbott, Richard Avedon, Margaret Bourke-White, Thomas Demand, Simone Demandt, Jim Goldberg, Hiroko Komatsu, Germaine Krull, Catherine Leutenegger, Edgar Martins, Rémy Markowitsch, Richards Misrach, Jules Spinatsch, Edward Steichen, Thomas Struth, Shomei Tomatsu, Marion Post Wolcott e molti altri.
Materia e idea, macchina e metafora
Un’epopea per immagini del mondo dell'industria e del lavoro
MAST.
via Speranza 42, Bologna
3 maggio – 24 settembre 2017
Ingresso gratuito
Orari di apertura
Martedì – Domenica 10.00 – 19.00
Visite guidate
Sabato e Domenica ore 11.00 e ore 16.00
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Urs Stahel
Curatore della Photogallery MAST e dell’esposizione
Gli archivi sono giganti silenziosi. Si svegliano e cominciano a parlare se poniamo loro domande dirette, se li scuotiamo dal torpore grazie a determinate prospettive, a punti di vista particolari, o li rendiamo vivi con il nostro interesse, riportando il loro potenziale nel presente. Con le collezioni non è molto diverso, anche se in questo caso la selezione è accompagnata sin dall'inizio da una determinata volontà, un’idea, un interrogativo. Solo quando attingiamo con gli occhi e con la mente al fondo iconografico del passato, quando stabiliamo delle connessioni, quando leghiamo il presente a ciò che è stato, la produzione al consumo, l'uomo alla macchina, la fabbrica alla società, ecco accendersi la scintilla: gli archivi e le collezioni cominciano a raccontare, svelano i loro tesori, consegnano informazioni, entusiasmano con gli universi visivi che custodiscono.
Ogni archivio possiede una propria storia, un sistema specifico fatto di ordine e disordine, e risponde a una struttura del tutto particolare. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, le fotografie ricoprono una funzione soprattutto descrittiva. In altre parole, una fotografia raffigura un determinato oggetto, lo rappresenta, mostra l'evento in questione, è stata scattata in un contesto specifico da un fotografo sconosciuto, spesso anonimo. Tutto qui. È ciò che definiamo il punto di vista descrittivo, denotativo della fotografia, che porta a dimenticarne le potenzialità estetiche, la forza immaginifica, le suggestioni visive: i neri profondi nello strato di sali d'argento che ricopre la carta, l'imponenza dei soggetti sovradimensionati, lo splendore accecante dei colori. Le fotografie possono fare molto più che definire, descrivere. Sono incisive, sviluppano forze d'irradiazione, penetrano sotto la pelle, si insinuano dentro di noi anche emotivamente, comunicando non un messaggio univoco, bensì due, tre, quattro concetti diversi e paralleli. Si tratta dei cosiddetti messaggi connotativi, che trapelano dal contesto e possono avere sfumature simboliche o metaforiche, da leggere e comprendere a livello figurativo. Oppure si tratta di quegli stimoli che, come la musica, agiscono in modo diretto e immediato sulle nostre sensazioni ed emozioni. A volte, il potenziale emotivo di una fotografia ci avviluppa, ci pervade in maniera più intensa e profonda rispetto al suo contenuto descrittivo; altre volte la forza descrittiva e quella estetica si contrappongono in modo antitetico, si affrontano in un duello che suscita nell'osservatore un senso di disagio e insicurezza. Ma se il sommario, il rimando, la definizione e, dal lato opposto, l'emozione, il potenziale figurativo si completano, si arricchiscono a vicenda, la fotografia acquisisce ed emana una forza incomparabile.
Queste forze supplementari della fotografia sono quanto la mostra “La forza delle immagini – Collezione MAST: una selezione iconica di fotografie su industria e lavoro” vuole scoprire e rivelare. Il percorso espositivo intende metterle in luce, impiegarle attivamente, facendo interagire le foto tra loro, giustapponendole per sviluppare una nuova forma di narrazione, più ricca, multiforme ed enigmatica. Davanti ai nostri occhi sfila un tripudio di immagini, un'epopea visiva, una danza di visioni del mondo del lavoro, una pletora di impressioni dell'industria pesante e di quella meccanica, della digitalizzazione, della società usa e getta. Lo sguardo di oltre sessanta fotografi ci guida attraverso ambienti, zone, settori diversi, nell'universo dell'industria e del lavoro, in regni che vengono raccontati, spiegati, che ci colpiscono anche emotivamente, rivelando nuove modalità di visione in un gioco di contrasti: similitudine, sdoppiamento, evidenza e impenetrabilità, pesantezza e lievità, pieno e vuoto, energia ed euforia contrapposte alla malinconia, alla tristezza, al mistero, in un mondo estremamente ricco di immagini com'è quello degli oggetti, del lavoro, dell'industria e della tecnica nella nostra società.
L'osservatore, per esempio, si trova immerso nel metallo o, più precisamente, nelle immagini che del metallo ci offrono Germaine Krull, Berenice Abbott, Nino Migliori, Takashi Kijima e Kiyoshi Niimaya: ne sperimenta la pesantezza e la plasmabilità, l'oscurità del processo produttivo, la luce, la brillantezza del risultato, ne osserva la stabilità, l'elasticità, la duttilità, lo vede trasformarsi, sottoposto a deformazione, in “fogli di metallo distorti” (dal titolo di uno scatto di Kiyoshi Niimaya). Il metallo è il materiale con cui si creano ponti, nel senso letterale del termine, come ci mostra la grandiosa serie di fotografie di Germaine Krull. Il metallo è il materiale primario di una determinata epoca industriale. Poi però vediamo anche lamiera, acciaio, plastica, pneumatici di gomma, intonaco bianco e, nelle foto di Pietro Donzelli, asfalto, barili di catrame, pozzanghere bituminose nelle aree industriali dismesse.
La grande opera in venticinque parti di Rémy Markowitsch è stata realizzata in vista di una mostra dedicata alle officine Volkswagen, alla grande fabbrica e alla città di Wolfsburg, cresciuta come appendice dello stabilimento. L'opera trasforma l'oggetto motore in uno Psychomotor (dal titolo che l'artista dà al suo lavoro), la potenza della sua meccanica in sensualità, in una carica erotica diversa a seconda dell'occhio che la guarda. Le macchine diventano creature impenetrabili, surreali, animali: nelle opere di César Domela, i generatori di vapore si trasformano in giungle, organismi viventi, un concentrato di strutture urbane affollate di entità che ardono, sbuffano, strisciano e si insinuano, soffiano o ticchettano piano per poi partire in una nuvola di fumo.
Forme chiuse, enigmatiche, superfici spezzate, motivi che ricoprono intere aree in modo affine ma con significati totalmente diversi: l'analogia formale è ciò che tiene insieme una schiera organizzata di minatori che trasportano carichi pesanti, i pozzi collegati di uno stabilimento chimico o la torre di raffreddamento di una centrale atomica, in modo tale da creare uno spazio fatto di contrasti stridenti. Un altoforno (nella foto Il primo altoforno a Magnitogorsk di Max Alpert), la ciminiera che svetta nel cielo ritratta da Jakob Tuggener, le torri di raffreddamento e i missili simboleggiano la perenne ambizione a ottenere di più, sempre di più, a spingersi più in alto, a mirare al progresso, alla conquista del mondo. L'energia è sempre più concentrata, violenta, potente finché non esplode, finché non si scarica. E lo fa volontariamente, in modo pianificato oppure improvviso e brutale, redditizio o distruttivo. Ferrovie, automobili, dirigibili, aerei, missili, bombe: l'umanità inventa, sviluppa, progetta, costruisce, produce e mette in opera a fin di bene e a fin di male.
La grande fotografia di Jules Spinatsch dal titolo Turno del mattino. Unità 631 è un viaggio computerizzato attraverso un turno di otto ore negli impianti di produzione dei trattori John Deere. È un intero turno, riassunto e schematizzato, ottocento scatti condensati in un'unica immagine. A conclusione del processo produttivo si passa alla verniciatura e al rivestimento, la scocca viene infilata sull'unità motrice come un vestito. In gergo questa fase è definita marriage o wedding, matrimonio. Simone Demandt ci guida all'incontro con le macchine e le apparecchiature notturne, quelle che funzionano ininterrottamente nei laboratori, misteriose e insieme rivelatrici, continuando a misurare, a ticchettare anche quando più nessuno è presente. Le fotografie della Borsa di Chicago scattate da Geissler/Sann raccontano dello sfinimento dopo una battaglia aspramente combattuta, ma testimoniano anche l'ambizione perenne ad avanzare: un non-stop eterno, insaziabile, da cui non esistono vie d'uscita.
Le foto di spazi e ambienti sono la struttura portante della mostra, guidano il visitatore, ne indirizzano lo sguardo, rappresentano i segnavia del percorso espositivo. Passiamo in rassegna capannoni industriali, per esempio quelli ritratti da Thomas Struth in Laminazione a caldo, Thyssenkrupp Steel, Duisburg o da Edgard Martins in Centrale elettrica Alto Rabagão: barra collettrice, oppure dispositivi come quello nella foto Interno della camera da vuoto del Large Space Simulator di Edgard Martins, percorriamo con lo sguardo la Raumfolgen 244 di Walter Niedermayr fino ai bianchi, freddi ambienti di lavoro raffigurati nella serie di Henrik Spohler dal titolo “Global Soul” che affronta il tema dell'intangibilità, dell'invisibilità dei flussi di dati. Infine, dopo una fase di passaggio costituita dalle sfolgoranti fotografie di prodotti realizzate da Peter Keetman e Franz Lazi, approdiamo a Mezzogiorno di fuoco, discarica di Dhaka, Bangladesh, opera tratta dalla serie di Jim Goldberg “Open See”: un'ampia pianura ricoperta di rifiuti sulla quale una “guardia” controlla attentamente che i materiali di scarto siano separati dai cadaveri animali. Hiroko Komatsu affronta il tema della produzione di massa con una moltitudine di stampe ai sali d'argento. L’artista erige templi di immagini, pareti di figure da attraversare come in una performance: se con le foto edifica strutture architettoniche, con l'architettura, sempre evocata in uno stato di avanzamento incerto, a metà strada tra costruzione e demolizione, crea un'atmosfera di catastrofe, rovina, sfacelo. L'installazione, costituita da fotografie che ritraggono ogni genere di materiale edilizio e da costruzione, si trasforma in una sorta di spazio fisico, tridimensionale, atto alla riflessione esistenziale: una “bioriserva sanitaria” (dal titolo del lavoro di Komatsu), malinconica bacheca della senescenza, reliquiario di oggetti in declino, ciascuno dei quali, per quanto magistralmente prodotto, è destinato a fine certa.
Anche la fotografia ha sperimentato il fenomeno dell'estinzione con la scomparsa dei processi definiti a posteriori analogici. Abbiamo assistito all'avvento della “fotografia elettronica”, com'era chiamata inizialmente, continuando a pensare che non sarebbe riuscita a scalzare il procedimento analogico, considerandola tutt'al più un episodio marginale o un progresso da affiancare ai sali d'argento. Andy Grundberg, illustre critico fotografico del New York Times, ancora nel 1988 scriveva: “… è più probabile che la creazione di immagini elettroniche avrà un destino analogo al procedimento che Edwin Land chiamò polaroid, sarà un optional per la comunità dei produttori di immagini. Persino il capo della Eastman Kodak’s Electronics Division – azienda fondata di recente allo scopo di garantirsi una futura posizione chiave sul mercato – crede che il ruolo della stampa fotografica tradizionale non sarà mai usurpato da quella elettronica. … A nostro avviso, la produzione di immagini elettroniche esalterà la fotografia ai sali d'argento, non la rimpiazzerà”. La realtà ha confutato rapidamente questa valutazione. Oggi sappiamo che il giudizio errato di quel responsabile della Eastman Kodak’s contribuì al lento declino di un'azienda che attualmente, soprattutto a causa di questo sbaglio, è ridotta a meno del 10% delle dimensioni originarie. Catherine Leutenegger racconta questa decadenza con fotografie a colori piene di ambienti e parcheggi vuoti o in disuso. Nessuna innovazione, neanche la più importante, può essere salvaguardata dal declino.
Frattanto l'epopea per immagini si popola di esseri umani: operai, lavoratori, manager. Raramente legati agli ambienti in cui si trovano o alle macchine e agli strumenti che impiegano, sono invece isolati, come nei famosi ritratti della serie “Nel West americano” di Richard Avedon, selezionati e collocati da soli nello spazio figurativo e davanti alla macchina da presa. Sembrano chiedere: chi siamo? dove andiamo? cosa abbiamo fatto? Sono stati gettati nel mondo, come ha affermato Jean-Paul Sartre, condannati a una libertà che spesso, nelle condizioni sociali in cui vivono, non sono mai riusciti a sperimentare. Paiono assai meno smarriti e alienati quando sono attivi e manovrano le loro macchine, le apparecchiature, gli strumenti. Allora sembrano meno vacui, più ricchi di significato. Il lavoro è una gigantesca macchina che produce identità.
L'universo iconografico dell'industria e del lavoro, della fabbrica e della società cui questa mostra dà vita è permeato dall'idea della pluridimensionalità: molti livelli diversi, sentieri, linee temporali, atmosfere che corrono parallele o si incrociano – come l'uomo sul carro trainato da un asino ritratto di fronte a uno stabilimento industriale nella foto di Pepe Merisio o l'accostamento di un piccolo campanile alle torri gemelle del World Trade Center nell'immagine di André Kertész.
Per i surrealisti, la sfida consisteva nel sovvertire le immagini per cambiare le forme espressive. Ma è altrettanto fondamentale sovvertire mediante le immagini, vale a dire portare lo scompiglio tra i fatti della realtà. “È grazie alla forza delle immagini”, scriveva André Breton, “che col tempo potranno compiersi le vere rivoluzioni”. Viviamo in un mondo che lo dimostra quotidianamente. Il nostro obiettivo non è certo la rivoluzione: ma vogliamo comporre un'epopea, accendere un fuoco d'artificio di immagini, e farlo con le fotografie della collezione MAST.