Immagini: 1) Verona – 2) Palmerini, Lucarelli e Casale, Verona 1972.
Proveniente da Napoli, dopo un viaggio lungo quanto la nottata passata in treno, arrivai a Verona la mattina del 14 febbraio del 1972, per iniziare il lavoro nella nuova qualifica ferroviaria, di grado superiore a quella da me ricoperta nei circa due anni dalla mia assunzione, nel settembre del 1969, presso la stazione di Napoli Centrale. In effetti era una promozione: conseguita però per pubblico concorso, o concorso esterno, come preferivamo dire; per non confondere quel passaggio di carriera col meccanismo del concorso interno, che a sua volta sanzionava, con una formalizzazione concorsuale falsamente selettiva, il passaggio di grado per anzianità (da cui eravamo esclusi noi giovani per motivi anagrafici). Nonostante l’orario, la stazione, sebbene nel silenzio delle prime ore del mattino, era viva e nei vari uffici allineati lungo il marciapiedi del primo binario il lavoro ferveva. Io, già ferroviere, sapevo come muovermi. Nell’attesa che aprisse la Segreteria di stazione, e si presentasse nel suo Ufficio il Titolare dell’impianto, il primo contatto fu con l’Ufficio telegrafo di cui conoscevo per nome qualche collega, mio corrispondente di telescrivente finché ero stato a Napoli; poi cercai l’ufficio del Primo Aggiunto (il sostituto del Capostazione titolare, nei momenti di sua assenza).
Trascorsa qualche ora e aperti tutti gli uffici, quelli di noi che nel frattempo, tra le tante incertezze, ci eravamo finalmente riconosciuti come “i nuovi assunti”, ci presentammo alle autorità di stazione, e subito fummo dirottati agli Uffici compartimentali, che in genere, nelle città sedi di Compartimento, si trovano fuori dagli impianti e separati dalle stazioni. Qui, superato il primo momento dell’accoglienza e dell’identificazione personale mediante la presentazione delle credenziali, ricevuta copia del decreto di nomina insieme alla nuova tessera personale rilasciata dall’Amministrazione, fummo assegnati ai vari uffici. Quelli che provenivano già da una qualifica ferroviaria, come me, “con decorrenza immediata” entrammo nei turni di servizio; gli altri: tutti ai corsi professionali in vista delle abilitazioni ai servizi di stazione. Il resto di quella prima giornata, la maggior parte di noi – quelli che non avevano potuto provvedervi prima della partenza – lo trascorremmo a cercarci dove mangiare e dove andare a dormire.
L’indomani, chi, come me, era stato già ferroviere, fu subito adibito alle mansioni della qualifica nei vari uffici delle due stazioni più importanti della città, in attesa di una sede definitiva che sarebbe stata individuata per ognuno secondo le esigenze dell’organizzazione del lavoro e sulla base delle singole competenze o capacità, o propensione dell’interessato, una volta superati con esito favorevole gli esami di abilitazione “alle funzioni professionali del personale di esercizio dell’Azienda delle Ferrovie dello Stato: gestione telegrafo, gestione biglietti, gestione merci, movimento treni”. A me capitò la Biglietteria di Verona Porta Nuova. E vi rimasi fino a che tutti gli altri, terminati i corsi, ottennero la loro abilitazione; e di conseguenza anche la destinazione. Io però continuai a restare a Porta Nuova anche oltre: fino al compimento dell’anno solare, allorquando fui restituito al Compartimento ferroviario di provenienza, quello di Napoli. E così, ritornato a Napoli, ebbi il posto di lavoro nella stazione di Pompei. Ancora solo per pochi mesi, tra l’altro, prima di partire per Roma presso la Direzione Generale.
Verona, città di Fiera, come ogni anno, in quei giorni aveva in corso la manifestazione delle Macchine di movimento terra, e la stazione di Porta Nuova esibiva nell’atrio della biglietteria una grande ruspa, a dare il benvenuto ai viaggiatori e a richiamare così l’attenzione sulla importante esposizione commerciale e industriale. Pochi giorni per familiarizzare col nuovo lavoro, coi nuovi colleghi, con i luoghi, le abitudini, le mentalità, e con i personaggi che di volta in volta i colleghi anziani mi indicavano attraverso il vetro degli sportelli numerati: una vetrina per noi che eravamo in esposizione l’intero turno di lavoro; ma nello stesso tempo – in senso opposto e reciproco – una vetrina della città e della sua vita, che si presentava attraverso i comportamenti degli avventori, i quali a noi si rivolgevano, o per l’acquisto del biglietto di viaggio, o per chiedere informazioni, o anche per altre richieste, le più strane e imprevedibili. Ma soprattutto attraverso il passaggio – o il passeggio – di tutta la varia umanità che in quell’atrio transitava.
Trascorso il tempo della durata della manifestazione fieristica delle macchine “movimento-terra”, l’allestimento al centro dell’atrio della stazione veniva tolto e al suo posto ritornavano le palme, sistemate in un grosso vaso di terracotta; ma per la maggior parte dell’anno, specialmente quando più intensa era la frequentazione da parte dei viaggiatori, l’estate per esempio, l’atrio restava libero. Ma, ancora al tempo delle palme si cominciò a vedere aggirarsi in quell’atrio, e all’interno di tutta la stazione, un simpatico clochard con le sue abitudini, con le sue manie. Vestito di un liso e smisurato cappotto grigio lungo ai piedi, forse senza bottoni, indossato anche d’estate, con la sua figura longilinea si spostava dalla macchinetta del caffè fino al recinto di protezione delle palme al centro dell’atrio. Ed era quello, in tale inquadratura di contesto, il momento in cui era più simile ad un nomade beduino del deserto. Dei bicchierini di plastica usati per sorbirsi i suoi caffè ne faceva una pila, con in cima l’ultimo, contenente il caffè che stava bevendo.
Durante il turno notturno, se gli capitava, come spesso faceva, di fermarsi in stazione, si avvicinava a qualche sportello cercando compagnia forse per maggiore sua sicurezza. Potrei anche dire finalmente che era diventato – o almeno tale poteva dirsi – amico dei ferrovieri in servizio alla biglietteria, e, tra questi, dei due o tre che più spesso durante il turno di notte si compiacevano di intrattenersi con lui dall’altra parte dello sportello, come fosse un laico confessionale. Mai però, nonostante le nostre insistenti richieste, che ci abbia voluto dire il suo nome, o la città di provenienza, o la sua professione – se ne aveva avuto una – o il suo ultimo lavoro, o qualche altra notizia di carattere personale che potesse servirci per entrare all’interno del suo mondo e della sua esperienza esistenziale.
Qualcuno dei colleghi gli offriva piccoli contributi economici e gli procurava indumenti o altri oggetti utili nella sua condizione. Appariva di buona cultura e di sentimenti sani, ricco di reminiscenze scolastiche probabilmente da liceo classico, se non addirittura da università con indirizzo storico-filosofico o letterario. La sua parlata, a me napoletano, sembrava siciliana del versante orientale: Messina, Catania, o giù di lì. Di una intelligenza vigile. Cominciammo a chiamarlo Jesahel dal titolo della canzone che circolava in quei giorni e che durò tutta l’estate. A una certa ora del mattino si presentava allo sportello chiedendo un biglietto per Dossobuono, che all’epoca costava 50 lire. Talvolta, raramente, arrivava chiedendo: “Domegliara!” che costava 100 lire. All’inizio, di fronte alla nostra meraviglia per la novità, ci rispondeva: “La moneta deve circolare; oggi ho guadagnato di più”.
Presto ci rendemmo conto però che l’acquisto del biglietto era un espediente, frutto della sua intelligenza pratica. Infatti gli serviva ad aver diritto di entrata nella stazione e restarvi tutto il giorno, utilizzare i bagni e raccogliere elemosine senza essere importunato o molestato dal personale ferroviario, i guarda-sale, o dagli agenti della polizia ferroviaria. Evidentemente in occasione dei ripetuti controlli qualche agente più zelante, o più morboso, gli avrà contestato di non salire mai sul treno, o di essere in possesso di un biglietto sempre per la medesima destinazione; allora era la volta che con le sue 100 lire veniva a chiederci: Domegliara.
Una mattina si presentò allo sportello all’alba; e, poiché non lo avevamo visto per tutta la notte, il Titta, che non aveva figli e si dedicava ad opere umanitarie, gli chiese dove avesse dormito la notte. Ci rispose che aveva dormito sotto il cielo, disteso sulle gradinate dello stadio, all’aria aperta, al fresco. Praticamente all’addiaccio, “ad sidera”; ma lui non sembrava assiderato. Allora il Titta gli chiese se avrebbe accettato un paio di scarpe smesse, quasi nuove, non utilizzate solo perché strette di numero, rispose di sì, e molto volentieri. Fece per chiederle pensando che le scarpe fossero in biglietteria; ma quando il Titta gli disse che le aveva in macchina e che lo accompagnasse al parcheggio, perché gliele avrebbe date, subito, sornione, gli rispose: “Ma allora tu oggi vorresti farmi lavorare?”. E le rifiutò.