“Hai ragione…” sibila lui nel messaggio vocale. “Certo. Ti ho scritto dalle sei del mattino alle due della notte successiva per mesi. Hai ragione. Abbiamo riso, litigato, ci siamo rincorsi e abbiamo parlato di tutto. Ma tra noi – ce lo siamo sempre detto – non c’è mai stato nulla di fisico. Nemmeno un po’. Il fatto che tu esista nella mia vita da dieci anni e mia moglie non ne sappia nulla, non vuol dire che io la stia tradendo. Eh! Io, quando, nel 1912 [… o giù di lì], mi ero preso una cotta per un’altra, alla mia attuale moglie, all’epoca mia fidanzata, mi sentivo così in colpa che confessai. Sono uno che non sopporta i rimorsi, io. No. Non la sto tradendo”.
Le perle. Questa era un’amicizia, in effetti, durata dieci anni. Così la chiamavano Leoluca e Genevieve, siciliano lui, ingegnere “felice” in un paesino della costa ragusana; pugliese, trapiantata a Roma e in altre metropoli italiane lei, insegnante di lettere con la passione del teatro. Leoluca e Genevieve si erano “conosciuti” su una chat antidiluviana; avevano conversato nelle ore piccole come i protagonisti de Le Notti bianche del terzo millennio. Fidanzatissimo lui, nella vita vera, quella fuori dalle finestre impalpabili in cui siamo come e quello che scriviamo; fidanzata a metà, sempre appesa a un filo lei, nella sua quotidianità confusa e alla ricerca inquieta e lacrimosa di un ubi consistam di paterna memoria. A un certo punto, Genevieve però pensa di aver ritrovato l’equilibrio col suo compagno; propone all’amico virtuale (“amico”, sì, perché ormai, dopo mesi, si parla solo delle rispettive vite sentimentali, senza segreti: non c’è corteggiamento e non c’è mai stata intenzione di incontrarsi) di scambiarsi i numeri di cellulare. Anno di grazia 2008: “Leoluca, ogni tanto mi farebbe piacere sentirti al telefono. Fa un caldo torrido e non ho più tempo né voglia di chattare. Siamo amici e non hai nulla da temere in me. Se ti va, questo è il mio numero”. “No,” fa lui. Risoluto e sincero che quasi pare un uomo. “Il fatto è che tu mi piaci. Non è che non mi fidi di te. È che non mi fido di me! Non ti voglio troppo a portata di mano. La donna della mia vita è lei, io la sposerò. E non posso rischiare di infatuarmi di un’altra e perdere quello che ho”.
L’anno successivo, però, entrambi, immersi nelle loro vite reali, sbarcano su Facebook. O comunque, si “re-incontrano” su Facebook. E non hanno bisogno di raccontarsi granché per anni; si tengono d’occhio a vicenda con reciproca, asessuale, tenerezza. Lui diventa più volte papà, lei si distrugge come un uccello di rovo dietro a una storia eterna, e passioni per uomini inutili. Poi, dieci anni più tardi dal primo “ciao” in quella brutta e vecchia chat (i numeri di telefono hanno fatto in tempo a scambiarseli, nel frattempo, fugacemente), il timore di minare il karma con la sua donna ha abbandonato lui: e lei sa perfettamente che in Leoluca non vedrà mai, mai e poi mai, null’altro che un saggio conversatore. Il genere di conversatore al quale affidi i bagagli più pesanti proprio perché sai che mai nella vita lo guarderai negli occhi, e inoltre, te lo ricordi bene quanto lui sia intelligente, profondo, più maturo dei suoi anni. A proposito, di anni ne hanno compiuti 37 lui e 35 lei. Quello che non sanno o non riconoscono, è che da qui in poi, due sole saranno le ragioni del loro assurdo e imperscrutabile (ma Effettivo e Affettivo) legame: Madama Solitudine e Nostra Signora La Noia. Solo questi due baluardi, questi insormontabili e invincibili vessilli delle reciproche frustrazioni, tengono per mesi in piedi un rapporto virtuale senza orari. Fatto di confessioni (specialmente di lei, ché lui è sempre piuttosto abbottonato, sulla sua vita) alle quali seguono i sermoni di un uomo che pensa di ungere con la sua sapienza vicende delle quali non conosce che la punta dell’iceberg: prese di posizioni nelle quali, via via, Genevieve si rende conto di non trovare la versione evoluta e adulta dell’amico (o meglio, dell’immagine dell’amico) che aveva da ragazza. No. C’è solo un uomo che poco sa del mondo, pochissimo comprende di lei, a dispetto delle ore, dei giorni, delle settimane e dei mesi di “conversazioni”, ma che non resiste alla pulsione di erigersi a guru, a vestire panni che gli calzano larghi, o stretti, sempre comunque inadeguati. Così bisticciano, una incomprensione dietro l’altra, ma sempre si riacciuffano. Sono appiglio, l’un per l’altra, in due mari evidentemente fatti di insoddisfazione. Di chiusura alla speranza. Solo che lei lo dice: “Sono infelice”. Lo dice spesso, lo dice troppo. Lui mai. Perché ci sono scelte di vita la cui facciata (e sostanza, perché no) non osa mettere in discussione con nessuno. Forse, neppure coi suoi stessi occhi riflessi allo specchio.
È così faticoso, parlarsi e doversi tradurre, chiarire, bacchettare, chiedere scusa, a chi, dall’altro capo del filo, è poco più che un ectoplasma, che, nell’interesse di entrambi, il rapporto scema. (E mai vi fu verbo più adeguato, pregnante, ricco).
“Sai,” confida un’amica di Genevieve, attrice sposata e madre di splendidi bimbi, proprio in quel periodo. “ho una persona. Chattiamo tutto il tempo, ci diciamo tutto. Da lui mi sento protetta come da mio padre, lo adoro. Ma non c’è sesso, tra noi. Non c’è nulla di sessuale, mai. A me, di scopare, non importa nulla, del resto. Io lo amo così e così lui ama me. Non abbiamo neppure bisogno di dircelo. È qualcosa che va oltre e al di là di là di tutto!”. Già. Ma mai al di là di Whatsapp.
Cosa stanno diventando, queste gabbie dorate che un tempo, al tempo del loro boom, sbaragliarono la concorrenza di uffici, palestre, università, feste e piazze, quanto a occasioni per trovare il partner col quale convolare a nozze? Cosa sono, questi sottomondi fatti solo di chiacchiere, di presunte affinità elettive, di maschere disincarnate che recitano in un non-luogo comodo e senza peccato? Sono diventate le perdite di tempo, lo spreco di energie più diffuso dei nostri giorni.
Concorda con me una collega, la quale, in un brillantissimo articolo di Io Donna, scrive:
Insomma se ci piacciono gli stessi libri, le stesse serie tv, disprezziamo le stesse persone, votiamo uguale, mettiamo like agli stessi post, abbiamo buone possibilità.
Il problema di credere alle affinità elettive è che ti costringono a un presupposto teorico impegnativo: che l’umanità sia una cosa ordinata.
Si spiega tutto meglio se esci da internet e controlli una a una le coppie che conosci. T’accorgerai che la domanda naturale non è se le affinità elettive ce le hanno o no, è “ma questi che fanno ancora insieme?”. La risposta è un grande boh – non lo sanno manco loro.
L’amore è il miracolo che riempie l’assenza di risposte alla domanda “perché insistere?”.
Verissimo, giustissimo. Bellissimo. Aggiungerei una postilla, però. Quelle coppie che stanno insieme senza un apparente perché; quelle coppie che vivono l’amore senza che sia una gara alla battuta (scritta) più geniale, quelle coppie che fanno sesso e lo fanno davvero, che si completano, che si avvolgono, che si scelgono e che insistono… mica piluccheranno altrove, ovvero nello smartphone, emozioni (più o meno ascetiche) con altra gente?! Gente della quale il partner di turno non conosce l’esistenza. Perché allora non vale. Non vale stare insieme a qualcuno, condividere con lui/lei gli affanni e le gioie di una famiglia, ma poi volare su un’isola (di desiderio, di scontro intellettuale come ne La bisbetica domata di Shakespeare, di mero narcisismo, di vanità e noia, noia, noia!) con qualche naufrago di sesso opposto raccattato per le vie della vita. Sappiate che è fenomeno molto più capillare di quello che immaginate.
Che le mogli oggi intercettano i tradimenti (sì: le menzogne sono tradimenti!) attraverso i like ai post del marito. I “mi piace” sulla piazza pubblica, quei pollici in su, quei cuoricini dispensati a mo’ di “visto e vidimato” che spesso non significano affatto “mi piace quel che hai condiviso”, ma solo, sempre e semplicemente: “Eccomi. Sono con te”. La forma evoluta ed esibizionista di quel che erano gli “squillini” persi nel vuoto di noi adolescenti degli anni ’90. I nostri “Ti penso” a costo zero, quando la scatola nera dei sentimenti cominciava a diventare la telefonia mobile, ma non avevamo la più pallida idea dei mostri che ne sarebbero discesi.
“E mi mandi il bacino, ma senza cuoricino?” mi scrive un tizio, la scorsa estate. 43 anni, lui. Il bacino senza cuoricino è indice di fretta, di sciatteria. Perché gli emoji contano più delle parole. Questo è.