
di Francesco Mazzarella
Viviamo tempi paradossali. Mai come oggi l’umanità è stata così connessa, eppure mai così distante. I dispositivi ci tengono “online”, ma l’empatia – quel collante invisibile che ci permette di sentire l’altro e riconoscerlo nella sua umanità – sembra progressivamente scollegarsi dal nostro quotidiano. In questo scenario, a pagare il prezzo più alto sono le nuove generazioni, cresciute in una società che ha dimenticato il valore dell’ascolto profondo, dello sguardo che accoglie, della presenza non mediata.
L’empatia, per sua natura, è un processo attivo, intenzionale, che richiede tempo, silenzio interiore, capacità di mettersi nei panni dell’altro. Nella società moderna, dominata dalla velocità, dalla performance e dall’immagine, questi elementi sembrano essere diventati superflui. Il tempo è sempre meno relazionale e sempre più funzionale. L’altro non è più un fine, ma un mezzo: per ottenere consenso, piacere, attenzione.
La sovraesposizione digitale, l’individualismo competitivo, la cultura del “mi piace” e del “seguimi” hanno trasformato la comunicazione in un flusso di segnali superficiali, lasciando poco spazio all’autenticità, alla vulnerabilità, alla co-costruzione del significato. L’empatia si impoverisce, diventa facoltativa, accessoria, quasi un lusso per pochi.
Le cause di questa erosione empatica sono complesse e intrecciate:
– Tecnologia senza educazione emotiva: Abbiamo insegnato ai giovani a usare uno smartphone prima ancora di insegnare loro a decifrare un’emozione. La relazione passa dallo schermo, ma il cuore resta spesso fuori campo.
– Modelli educativi orientati al rendimento: Famiglie e scuole sempre più orientate alla prestazione e al successo personale lasciano poco spazio alla dimensione relazionale. L’empatia, che non si misura con un voto, finisce col diventare invisibile e quindi marginale.
– Crisi della comunità: La disgregazione delle reti sociali territoriali, delle famiglie estese, dei luoghi d’incontro spontanei (piazze, oratori, cortili) ha impoverito l’esperienza diretta dell’altro. Si cresce in bolle autoreferenziali, spesso digitali, dove la differenza diventa minaccia invece che risorsa.
– Sovraccarico sensoriale ed emotivo: L’infodemia continua – notizie, immagini, stimoli visivi e sonori – produce una sorta di “callo emotivo”. Per sopravvivere, l’essere umano si difende anestetizzandosi: vedere tutto per non sentire più nulla.
I più giovani, immersi in questo scenario, sviluppano spesso una forma di empatia frustrata: sentono il bisogno di essere ascoltati, compresi, riconosciuti, ma non trovano gli strumenti o i contesti adeguati per viverlo. Crescono nel paradosso di avere mille connessioni e nessun legame profondo.
Ne derivano fenomeni in aumento:
– Disregolazione emotiva: ansia, rabbia, chiusura, autosvalutazione.
– Isolamento mascherato: socializzazione apparente ma solitudine reale.
– Dipendenza da stimoli esterni: like, video, giochi, per colmare un vuoto relazionale.
– Difficoltà empatiche reali: incapacità di leggere l’altro, di stare nel conflitto, di sostenere il dolore altrui.
Ma attenzione: le nuove generazioni non sono prive di empatia, sono spesso orfane di adulti che la testimonino. Hanno bisogno di vedere, sentire e toccare con mano che esiste un modo diverso di stare al mondo.
L’empatia può essere risvegliata, educata, allenata. Ma non può essere imposta: va seminata con cura in contesti coerenti e autentici. Ecco alcune strade concrete:
a. Riumanizzare l’educazione
– Introdurre percorsi di educazione socio-affettiva nelle scuole, già dalla primaria, dove si impari a nominare le emozioni, ascoltare il punto di vista dell’altro, affrontare il conflitto senza distruggere.
– Formare gli insegnanti e i genitori a una comunicazione empatica, basata sull’ascolto attivo e sulla presenza autentica.
b. Rilanciare la relazione come valore sociale
– Recuperare spazi comunitari dove le persone possano incontrarsi oltre le etichette: orti urbani, case di quartiere, laboratori intergenerazionali.
– Favorire pratiche partecipative, gruppi di parola, dialoghi facilitati, dove le diversità possano riconoscersi invece di respingersi.
c. Promuovere una comunicazione tecno-relazionale
– Non demonizzare la tecnologia, ma integrare competenze relazionali nel suo utilizzo: insegnare a comunicare in modo autentico anche online, ad esempio attraverso laboratori esperienziali.
– Creare progetti digitali che abbiano un’anima umana: piattaforme relazionali, podcast di ascolto reciproco, giochi di empatia virtuale.
d. Testimoniare l’empatia nella leadership
– Servono modelli adulti, educatori, formatori, leader che vivano l’empatia non come parola vuota ma come pratica concreta.
– La presenza empatica è contagiosa: chi ne fa esperienza vera, difficilmente torna indietro.
Recuperare empatia non è un vezzo da anime sensibili, è una scelta politica. Una società incapace di empatia è una società che genera violenza, discriminazione, esclusione. È una società fragile, esposta ai populismi e alla paura del diverso.
L’empatia è il vero antidoto alla barbarie. È il codice sorgente di una civiltà che vuole crescere. E non è mai troppo tardi per riscoprirla, per allenarla, per farne un linguaggio condiviso.
Siamo ancora in tempo per cambiare rotta. Ogni gesto di ascolto autentico, ogni carezza non negata, ogni dialogo che va oltre la superficie è un atto di resistenza e di costruzione.
Le nuove generazioni non ci chiedono perfezione, ma presenza vera. Non risposte preconfezionate, ma spazi dove potersi raccontare senza paura. Non modelli di successo, ma testimoni di umanità.
Ricordiamoci che l’empatia non è solo una competenza: è un modo di abitare il mondo. E possiamo scegliere, ogni giorno, se farlo come spettatori indifferenti o come compagni di cammino.