Puigdemont da Bruxelles: accetto la sfida delle elezioni, non sono qui per chiedere asilo politico

Tutte le tappe delle vicende che hanno portato al commissariamento della Catalogna

La parola “botifler” viene utilizzata oggi in Catalogna per indicare i traditori della nazione catalana ed è un termine che risale ai tempi della guerra di secessione spagnola. È accusato di essere un “botifler”, Angel Rose, il sindaco della città di Lleda, intervistato insieme ad altri sindaci delle principali città catalane dal quotidiano francese Le Monde, che vuole far luce sul movimento separatista e sulla sua ascesa negli ultimi anni.

 

Rose appartiene al partito socialista, un partito contrario al referendum ma critico nei confronti dell’immobilità dimostrata del governo spagnolo riguardo alla questione catalana negli ultimi anni. Jaume Oliveras, sindaco di El Masnou, è da sempre invece un convinto indipendentista, eppure è uno fra i più sorpresi rispetto agli ultimi risvolti della vicenda.

 

Cosa è accaduto? Perché un movimento così marginale permea oggi tutti i settori della società catalana?

 

Nel 2010 una sentenza della Corte Costituzionale Spagnola, sollecitata dai conservatori del Partito Popolare (Pp), ha dichiarato illegittimi 14 dei 223 articoli del nuovo Statuto della Catalogna, secondo Oliveras è stata quella la scintilla che ha provocato la situazione a cui siamo arrivati oggi. Il governo socialista di Zapatero aveva negoziato lo Statuto con il governo regionale catalano guidato dalla sinistra, lo Statuto era stato approvato con un referendum nel 2006.

A luglio dello stesso anno i leader della comunità autonoma sfilarono per Barcellona con uno striscione che diceva “Siamo una nazione, decidiamo”.

Ma è proprio questa definizione, quella cioè di nazione, che la Corte Costituzionale ha voluto eliminare dallo Statuto, provocando una frattura profonda nelle speranze indipendentiste.

 

Nel 2012 l’Anc (Assemblea nazionale catalana), un collettivo di associazioni indipendentiste, indice un grande corteo per la giornata dell’11 settembre, un giorno dal forte valore simbolico, quello in cui si ricorda la Diada, ovvero la resa di Barcellona all’esercito di Filippo V di Spagna nel 1714. L’affluenza quel giorno è enorme, autobus pieni di manifestanti arrivano da tutta la regione.

Gli stessi organizzatori stupefatti non sapevano spiegarsi un’affluenza così grande.

Cosa era successo nel frattempo? Molte cose certo, ma fra queste anche la crisi economica.

 

La crisi che tutti noi conosciamo, data la sua portata mondiale, non ha certo risparmiato la Spagna e men che meno la Catalogna, che versava in una situazione talmente difficile da non riuscire neanche a pagare i funzionari pubblici. Nel 2010 erano nati movimenti popolari spontanei di protesta contro le difficili condizioni sociali, uno di questi, gli “indignados”, circondò il parlamento catalano e occupò le piazze per diverso tempo provocando non pochi problemi al governo della Generalitat.

Prende sempre più piede la convinzione che le tasse pagate al governo centrale siano sproporzionate rispetto al resto della popolazione spagnola e che se i soldi della Catalogna rimanessero in Catalogna potrebbero essere gestiti in maniera più efficiente.

 

L’allora presidente della Catalogna, Artur Mas, di stampo nazionalista, si reca dunque a Madrid per chiedere l’autonomia fiscale al governo di Mariano Rajoy, ma la risposta fu negativa.

Questo lo portò a cambiare strategia e una volta rientrato a Barcellona indice nuove elezioni regionali e promette un referendum per l’autonomia.

Mentre il governo spagnolo rimaneva sordo alle richieste dei catalani e non lasciava aperto neanche il più piccolo spiraglio di dialogo, la rabbia e il malcontento sociale continuavano a crescere, alimentando sempre più le file degli indipendentisti.

 

Il partito di Artur Mas, la Ciu (Convergència i Unió), sino a quel momento era sempre rimasto fuori dalle questioni indipendentiste, ma la nuova generazione dei militanti del partito ha spinto verso una direzione diversa. Questa generazione è nata e cresciuta all’interno di un contesto culturale catalano (a scuola hanno imparato il catalano, in televisione ascoltano la lingua catalana, etc.) a differenza dei loro genitori, che hanno vissuto gli anni della transizione, non hanno mai dovuto confrontarsi direttamente con il governo spagnolo ed è anche per questo che sono più propensi a un’idea di Catalogna come Stato indipendente.

 

L’adesione della Ciu alla causa indipendentista ha conferito al movimento una sorta di legittimazione, non era più un fenomeno legato alla ribellione e alla trasgressione, ma una volontà rappresentata anche da quel partito che per anni aveva guidato la Catalogna.

Gli elettori della Ciu hanno talmente interiorizzato questa convinzione al punto che quando il leader del partito è stato travolto da uno scandalo finanziario, buona parte ha deciso di passare senza remore all’Erc (Esquerra republicana de Catalunya), che vantava anche una più antica tradizione di lotta. Questi cambiamenti all’interno dei partiti politici e dei movimenti della Catalogna ha fatto sì che l’opinione pubblica catalana non fosse più caratterizzata da diverse sfumature, come era stato fino a quel momento, ma arroccata esclusivamente sul dibattito per l’indipendenza, culminato con un referendum non vincolante nel 2014.

 

Questa spaccatura è ben più profonda di quanto si possa immaginare, provoca dissensi e dissapori in famiglia, fra gli amici, sul posto di lavoro. Molte delle persone intervistate da Le Monde non hanno voluto rivelare il loro nome per paura di ritorsioni. Nelle campagne e nelle piccole città l’elettorato indipendentista è più ampio e radicato mentre all’area urbana di Barcellona l’opinione pubblica è invece più divisa.

 

Tornando ai fatti, come siamo arrivati a oggi? Perché la Catalogna è una regione attualmente commissariata dal governo spagnolo?

 

Il 9 giugno di quest’anno il presidente della Generalitat de Catalunya, Carles Puigdemont, ha annunciato che il 1° di ottobre si sarebbe tenuto un nuovo referendum sull’indipendenza, referendum che questa volta sarebbe stato vincolante. La domanda alla quale la popolazione catalana avrebbe dovuto rispondere sarebbe stata “Volete che la Catalogna sia uno Stato indipendente in forma di repubblica?”.

 

Puigdemont è succeduto ad Artur Mas alla guida della Catalogna, a seguito di un accordo fra la Ciu e la Cup (Candidatura d'Unitat Popular), un partito catalano di estrema sinistra e indipendentista che ha ottenuto l’8,21% dei voti alle elezioni del 2015, una percentuale forse piccola ma necessaria alla Ciu (che nel frattempo aveva cambiato nome in Convergenza Democratica di Catalogna e che oggi è divenuta Partito Democratico Europeo Catalano) per raggiungere la maggioranza in parlamento.

 

Il 28 agosto il governo regionale catalano ha presentato un progetto di legge sulla “transizione giuridica e la fondazione della repubblica”. Secondo quanto riportato dalla legge, a seguito di un esito positivo del referendum, l’attuale governo catalano avrebbe assunto tutti i poteri dell’esecutivo spagnolo ed entro sei mesi sarebbe stata formata un’assemblea costituente.

Il 6 settembre, durante una seduta convocata con procedura d’urgenza, il parlamento catalano ha approvato la legge regionale istitutiva del referendum. La coalizione “Junts pel Sì” insieme alla “CUP” hanno votato a favore totalizzando 72 voti, fra gli astenuti 11 voti del partito “Catalunya Sì que es Pot”, mentre i rappresentanti dei partiti contrari al referendum (PP, PSC-PSOE e Ciudadanos) hanno abbandonato l’aula per protesta.

 

Il 7 settembre è arrivata la risposta del Tribunale costituzionale al ricorso d’urgenza presentato dal primo ministro spagnolo Mariano Rajoy. Il Tribunale ha di fatto sospeso il referendum dichiarandolo incostituzionale, a questa sentenza si è aggiunto anche l’intervento della Procura Generale (Fiscalía) che ha denunciato per i reati di disobbedienza e prevaricazione sia Puigdemont che tutti i membri dell’Ufficio di presidenza del Parlamento regionale della Catalogna che avevano approvato la messa all’ordine del giorno della legge istitutiva del referendum.

La Fiscalía ha anche ordinato a tutte le forze di polizia, compresi i Mossos d’Esquadra (il corpo di polizia regionale della Catalogna), di impedire lo svolgimento del referendum e di sequestrare urne, materiale di propaganda e computer destinati a questo scopo.

Le tensioni aumentano ancora quando il 20 settembre la Guardia Civil fa irruzione nelle sedi di diversi ministeri del governo regionale catalano e arresta almeno 14 funzionari accusati di aver partecipato all’organizzazione del referendum. I materiali vengono sequestrati, oltre settecento sindaci interrogati, alle scuole vengono applicati i sigilli e le ferie di tutti gli agenti della polizia e della Guardia Civil vengono sospese fino al 5 ottobre.

Una reazione del genere da parte del governo centrale da un lato ha alimentato il fuoco dell’indipendentismo e dall’altro ha suscitato l’indignazione di molti cittadini che pur non favorevoli al referendum rimangono della convinzione che votare sia un’espressione diretta della democrazia popolare. A migliaia scendono in piazza per protestare contro quelle che sono state definite “forze di occupazione”. Anche la sindaca di Barcellona, Ada Colau, che non è a favore dell’indipendenza ma rivendica il diritto all’autodeterminazione, ha commentato gli arresti definendoli “uno scandalo democratico”.

 

“Catalani sono quelli che vivono qui, lavorano qui e amano il nostro paese”, dichiara Puigdemont in un’intervista rilasciata al Der Spiegel, ed è proprio in questo che risiede la peculiarità del movimento secessionista catalano rispetto ad altri movimenti che invece puntano sulla differenziazione. Il giorno del referendum le forze di polizia, su ordine del ministero dell’interno spagnolo, cercano di impedire lo svolgimento del referendum con ogni mezzo, anche e soprattutto con la forza e la violenza. Le immagini di semplici cittadini, alcuni dei quali anche molto anziani, trascinati a forza fuori dalle urne e malmenati, hanno fatto in poco tempo il giro del mondo attraverso gli organi di stampa e i social network, impressionando violentemente l’opinione pubblica. Le persone ferite sono oltre 800.

 

Gli esiti delle consultazioni referendarie, di cui il governo spagnolo ha continuato a negare ogni validità, hanno confermato una vittoria del sì con il 92% dei voti favorevoli, ma le condizioni in cui si sono svolte lasciano a intendere che è difficile considerare affidabile questo risultato.

Seguono giorni di attesa che culminano il 10 ottobre quando Puigdemont dichiara l’indipendenza ma al contempo la sospende per aprire un dialogo con il governo centrale.

Mariano Rajoy non coglie però quest’opportunità e l’11 ottobre intima al governo catalano di chiarire se ha effettivamente dichiarato l’indipendenza oppure no.

Inizia ad aleggiare lo spettro dell’articolo 155 della Costituzione, che permette al governo spagnolo di assumere alcune delle competenze di una regione che viola la costituzione o agisce “contro l’interesse della Spagna”. Nel frattempo i mercati finanziari non sono immuni dalle agitazioni settembrine e molte banche e aziende annunciano che lasceranno le loro sedi in Catalogna qualora questa decidesse di proseguire verso la strada dell’indipendenza.

 

Puigdemont propone l’intervento di un mediatore esterno per favorire i dialoghi con Madrid, ma non chiarisce ufficialmente la posizione sull’indipendenza, il 16 ottobre scatta la custodia cautelare in carcere per i leader delle organizzazioni indipendentiste catalane Assemblea nacional catalana e Ómnium. Scade l’ultimatum di Madrid e sabato 21 ottobre il Parlamento annuncia di voler procedere con l’applicazione dell’articolo 155, la decisione viene trasmessa al Senato che da l’approvazione definitiva il 27 ottobre, lo stesso giorno in cui il Parlamento catalano approva con scrutinio segreto la nascita di una repubblica catalana come “Stato indipendente, sovrano e democratico”.

 

Di fatto però l’articolo 155 destituisce Puigdemont e tutti i membri del Governo, nuove elezioni vengono indette per il 21 dicembre e la vicepremier Soraya Saenz de Santamaria assume le funzioni di presidente del Governo catalano. Tutti i ministri della regione vengono sostituiti, rimossi i direttori delle delegazioni di Bruxelles e Madrid, chiuse tutte le rappresentanza catalane all’estero.

Ma proprio mentre ieri arriva la notizia che l’ormai ex presidente e il suo entourage sono accusati di sedizione, ribellione e malversazioni dalla Procura Generale dello Stato, si scopre che questi nel frattempo sono volati a Bruxelles.

 

Da qui Puigdemont ha dichiarato nelle ultime ore che gli indipendentisti sono pronti ad accettare la sfida delle elezioni e ha aggiunto che “questa è un’offensiva del governo spagnolo senza precedenti nei confronti del popolo della Catalogna. Eppure la nostra mano è stata tesa all’infinito per il dialogo. Ma il Partito popolare di Rajoy e i socialisti non vogliono riconoscere il problema e invece usano solo repressione". Ha poi concluso "Abbiamo voluto garantire che non ci saranno scontri né violenza. Se lo stato spagnolo vuole portare avanti il suo progetto con la violenza sarà una decisione sua".
 

Puigdemont ha poi voluto ribadire l’importanza di sollevare la questione dinanzi all’Unione Europea e alla comunità internazionale (che però sostanzialmente ha già dato il suo appoggio al governo spagnolo), ha definito la sua permanenza a Bruxelles non una fuga ma un modo per continuare a portare avanti il lavoro dell’esecutivo di Barcellona.

E in merito alla sua incriminazione ha detto “Non sono qui per richiedere asilo politico. Se mi fosse garantito un processo giusto, allora tornerei subito in Catalogna per continuare a lavorare".

 

Quale sarà la prossima mossa di Madrid?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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