Roma, 27 gennaio 2019 – Nel Giorno della Memoria mi piace ricordare una delle più affascinanti esperienze di viaggio vissute, era il 2010, agosto, Berlino era splendida e fresca. Una città con un passato complesso e un futuro già tangibile attraverso la nuova immagine firmata dai vari Renzo Piano, Rem Koolhaas, Zaha Hadid, Norman Foster, Jean Nouvel e Daniel Libeskind, quest’ultimo ha curato il progetto del Jüdisches Museum Berlin, il più grande museo ebraico d’Europa, dove per la prima volta ho visto l’installazione “Shalechet”, diecimila volti di acciaio sospesi nel tempo. L’architetto polacco utilizza la comunicatività emozionale del messaggio architettonico per rendere viva e tangibile la storia del popolo ebraico e della Shoah. La sua architettura si scioglie nella scultura e le geometrie sembrano come lacerate, continui tagli nei rivestimenti di zinco, squarci di luce e pavimenti disequilibrati confondono e inquietano la visita. Il corridoio sotterraneo, dal quale si accede, introduce in un vero e proprio labirinto sensoriale, fatto di vuoti e luci, diviso in tre assi distributivi che rappresentano la metafora della storia del popolo ebraico: l’emblema della “prigionia” che conduce alla “Torre dell’Olocausto”, uno spazio freddo e chiuso simile ad una stanza carceraria; il secondo è simbolo della fuga verso l’esilio e porta al “Giardino ETA Hoffmann” formato da 49 steli inclinati di cemento su cui sono piantati alberi, il pavimento è sconnesso e disorienta il visitatore; il terzo asse rappresenta l’antica storia del popolo ebraico. L’edificio è completamente rivestito con lastre di zinco, tagliate da finestre allungate che sembrano ferite nella pelle metallica. All’interno sono presenti alcuni ambienti vuoti definiti simbolicamente e architettonicamente “Voids”. Lo Spazio vuoto della memoria ospita l’installazione “Shalechet” dell’artista israeliano Menashe Kadihman: il visitatore cammina su circa diecimila volti di acciaio collocati sul pavimento, e ne ascolta il frastuono. Quest’angolo di museo è stato volutamente lasciato privo di impianto di riscaldamento per aumentare il senso di orrore che attanaglia chiunque vi entri. La Torre, tra l’altro, si trova a poca distanza da un altro edificio che ospita un asilo infantile, da cui provengono, smorzate le voci dei bambini che giocano. Si cammina quindi su un mare di piastre grezze che guardate con attenzione e da vicino rivelano fessure con nasi, occhi, visi e bocche, migliaia di bocche aperte e congelate in un inconfondibile urlo silenzioso. Un frastuono che esplode ad ogni passo e che le pareti rimandano in continuazione in un eco deforme e stridulo, un grido delle migliaia di vittime dei tanti genocidi passati, presenti e futuri. Un luogo dove l’anima si perde nella memoria e il corpo nel tempo di uno spazio unico e pieno di sofferenza, per ricordare sempre gli orrori dell’umanità e non ripeterli.