In aprile, ben tre mesi prima dell’ultimo Consiglio europeo, il prestigioso mensile americano Atlantic pubblicava un articolo di Yasmeen Serhan dal titolo «L’Ue sta a guardare mentre Orbán uccide la democrazia», in cui si sottolineava l’ipocrisia di un’Unione che predica i valori dello Stato di diritto mentre uno dei suoi membri se ne fa beffe apertamente. E ne traeva la seguente conclusione: «Non c’è niente che impedisca a politici di altri stati membri dell’Ue come l’italiano Matteo Salvini, attualmente all’opposizione ma già vice primo ministro e ora in corsa per la premiership, di pensare che un giorno potrebbero fare lo stesso».
Che queste preoccupazioni vengano messa in risalto da un mensile americano è già di per sé motivo sufficiente per preoccuparsi. In un momento in cui viene espresso l’aperto sostegno della Lega a Orbán, proprio in questi giorni, nella sua battaglia contro norme che vincolassero i fondi europei al rispetto dello Stato di diritto. Il fatto poi che negli stessi giorni in cui si schiera contro lo Stato di diritto in Europa Salvini ne invochi il rispetto in Italia, per difendere sé stesso e Attilio Fontana, a cui i magistrati hanno ipotizzato il reato di frode in pubbliche forniture, non può stupire: un simile doppio standard è l’essenza stessa del populismo. Molto istruttiva, soprattutto per noi italiani, è la descrizione, nel libro appena uscito «Twilight of democracy», di Anne Applebaum in cui denuncia il rischio di vedere tramontare la democrazia in occidente, proprio come sta già tramontando in Ungheria e in Polonia, di quel variegato milieu di politici, giornalisti, burocrati e blogger pronti a sostenere con entusiasmo il nuovo autoritarismo. Anzi, strumento indispensabile della sua affermazione. Szabolcs Dull, direttore del principale sito ungherese di notizie Index è stato licenziato dopo avere denunciato un mese fa che l’indipendenza del giornale era a rischio.Viste le progressive infiltrazioni degli uomini di Orban nei media nazionali – dove altri siti, giornali, reti televisive e radio sono state da un giorno all’altro comprati da chi era vicino a Fidesz o direttamente chiusi – Index aveva istituito un paio di anni fa un barometro che indicava la libertà del sito. I guai dell’organo indipendente, uno dei pochi rimasti nel Paese, sono cominciati quando un imprenditore vicino al premier nazionalpopulista ha acquistato una partecipazione del 50% nelle società editrice. Nonostante questo, fino a qualche settimana fa la lancetta del barometro era sempre rimasta sul verde, poi si è spostata sul giallo, che significa “pericolo”. Uno scatto avvenuto quando la proprietà, facendo leva anche sulla crisi Covid, aveva pensato ad una riorganizzazione interna, con la creazione di contenuti esternalizzati e non più prodotti in redazione. L’ epurazione di Szabolcs Dull ha riacceso l’attenzione su un caso che era già arrivato anche a Bruxelles: lo scorso 7 luglio la vicepresidente della Commissione europea V?ra Jourová aveva inviato una lettera al sito esprimendo solidarietà perché hanno “lavorato in condizioni molto difficili. La pressione economica – aveva scritto – non dovrebbe trasformarsi in pressione politica. Ho seguito con preoccupazione la situazione del sito. Quello che state facendo – aveva aggiunto – e i valori per cui combattete, libertà e pluralismo, sono essenziali per la democrazia “. L’episodio è infatti ancora più eclatante se pensiamo che l’allontanamento di Dull è avvenuto solo un giorno dopo la conclusione dell’ultimo Consiglio europeo. Nel corso delle trattative a Bruxelles, Orbán sarebbe ricorso alla solita arma del veto, già usata in altri vertici, per ottenere da Angela Merkel il consenso a chiudere la procedura sull’articolo 7 del trattato dell’UE entro la presidenza tedesca, assicurandosi al contempo l’erogazione dei fondi per la ripresa. Ma per il presidente del Consiglio europeo Charles Michel non è ancora detta l’ultima parola: “con questo accordo, per la prima volta il rispetto dello stato di diritto si rivelerà un criterio decisivo per la spesa di bilancio”.
Resta il fatto che le istituzioni europee non sono ancora intervenute in modo decisivo sugli atteggiamenti liberticidi del governo ungherese, e non solo. Dall’avvento al potere nel 2010, documenta HRW, il governo di Orban “ha modificato le leggi sui media per fare in modo di controllare le nomine del principale organo di regolamentazione dei media, introducendo non ben definite restrizioni ai contenuti e sanzioni elevate”. La TV di stato filogovernativa ha licenziato oltre 1.600 dipendenti, mentre nel 2018 “400 media sono stati fusi in un unico gruppo editoriale fedele a Orban”, in barba alle leggi della concorrenza e al pluralismo dei media. Index, che è solo l’ultima delle vittime dell’affarista, già in possesso dell’emittente TV2 e di Origo, tra gli ultimi media rimasti indipendenti fino al 2014. A completare il quadro, basti ricordare che Nepszabadsag, il principale quotidiano di centro-sinistra, aveva ormai cessato le pubblicazioni nel 2016, mentre radio, TV e la stessa agenzia di stampa ungherese MTI “hanno da tempo rinunciato a qualsiasi pretesa di imparzialità”, riferisce Nick Thorpe della BBC, e “aspettano ordini dal governo su quali notizie riferire e come riferirle”. Certamente la comunità europea non resterà a guardare, il diritto di stampa in cui è pienamente inserito il diritto al dissenso, hanno un valore alto nella democrazia, oserei dire che sono il termometro della democrazia stessa.